Jung Chou & Vedran Kirinčić

Teologia spirituale


Riassunto completo basato sulle lezioni di Teologia Spirituale

Anno 2006/2007 versione 1.2 (con molte correzioni).


14/2/07

Prof. Vicente Bosch e Rev. Dott. Juan Marcos Arroyo

I tre grandi parti del corso:

Introduzione alla teologia spirituale

Dimensione costitutive della vita spirituale

Dinamismo della vita spirituale

Parte I. Introduzione alla teologia spirituale

Capitolo 1. Panoramica storica della Teologia Spirituale

Lo studio della teologia dovrebbe produrre uno scatto per l’incontro dell’uomo con Dio. Se la teologia non lo produce, allora è una teologia scarsa, malfatta. La teologia spirituale deve incidere sulla vita. Essa mette insieme tutte le conoscenze della teologia. La teologia spirituale studia la vita di santità dell’uomo.

Termine “teologia spirituale”. La parola “spirito” trova svariati significati nelle diverse lingue moderne. Spirito significa natura incorporea, oppure anima, essere soprannaturale, è una persona con buon umore, un gelato con tanto alcool. Spiritus proviene da “pneuma”, oppure “ruah” che significa: vento, alito, vita. Esso fa riferimento alla superiorità dell’essere umano sopra tutto il resto. Lo spirito umano ha una vita propria che nasce dal di dentro, va oltre il sensibile verificabile con i sensi esterni. Si sviluppa in conoscenza ed amore, in comunicazione con gli altri. Nel linguaggio biblico il termine “spirito” rimanda alla verità divina: Dio è Spirito, vita immanente, divina, comunicata all’uomo in cui si fa presente lo SS per identificarlo con Cristo e portarlo all’unione filiale col Padre. Di questa vita secondo lo Spirito si occupa la Teologia spirituale. Studia l’esistenza cristiana in quanto sviluppo di una vita iniziata con il battesimo e dovrà raggiungere la sua pienezza in cielo. Risponde alle domande: quali sono i tratti che configura la vita cristiana, quali sono gli elementi, fasi, tappi di questo sviluppo.

La spiritualità e le spiritualità. La Sacra scrittura adopera sia spirito che spirituale, ma non anche spiritualità. L’uomo spirituale è colui che si lascia guidare dallo SS, acquisisce un modo d’agire che non è superficiale, ma è naturale, corrispondente alla filiazione.

1 Cor 2,14-15: L'uomo naturale però non comprende le cose dello Spirito di Dio; esse sono follia per lui, e non è capace di intenderle, perché se ne può giudicare solo per mezzo dello Spirito. [15]L'uomo spirituale invece giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno.

Si fa confronto fra l’uomo spirituale e l’opera carnale. Lui adopera la parola spirituale. Da questo uso probabilmente Pelagio oppure suo discepolo lo adopera: Age ut spiritalitas proficias- agisci da crescere in spiritualità (vivere secondo lo spirito e non secondo la carne). Si parla di una nuova spiritualità in opposizione all’antica spiritualità- quella genuina, cattolica. Nel XVII secolo comincia a significare la capacità di esprimere concettualmente la vita spirituale. Il nuovo significato si adopera in tre ambiti:

1. Carisma nuova sorta nella Chiesa (spiritualità francescana, domenicana),

2. Ambiti culturali, temporali e regionali (spiritualità patristica, medioevale, spagnola…),

3. Strati che determinano la vita (spiritualità matrimoniale, sacerdotale, religiosa).

Come determinano questi diversi elementi in un’unica spiritualità?

Noi siamo uno, ma i membri sono molti. C’è un’unità, la santità è una partecipazione alla santità di Cristo. C’è anche diversità per la trascendenza del paradigma cristiano- Cristo. Essendo Cristo trascendente, nemmeno tutti gli uomini messi insieme possono arrivare alla pienezza di Cristo. È come una luce che cadendo su una prisma di vetro si rispecchia a tutto intorno. Sono sempre imitazioni parziali, diverse, mai compiuti ed esatti. Ci sono tante spiritualità quanti sono cristiani, ma queste diversità possono aggrupparsi attorno ad alcuni tratti comuni. Ci sono tre angolature diverse: secondo la personalità (santi e fondatori), secondo la diversa procedenza geografica e storico culturale e poi secondo il proprio status nella Chiesa.

16/2/07

Genesi e sviluppo della teologia spirituale:

  1. Epoca patristica e alto Medioevo

  2. La separazione tra teologia (come scienza) e spiritualità (preghiera)

  3. I primi trattati di TS

  4. Divorzio (separazione) tra ascetica e mistica

  5. Il ricupero dell’unita della TS

1. Diverse categorie degli scritti spirituali

Gli scritti relativi alla vita spirituale cristiana possono essere classificati in tre categorie:

A) Mistagogico - scritti con finalità antropologica, guidare l’anima lungo il cammino della santità; es. le diverse regole per vivere con l’unione con Dio.

B) Mistografici – sono relativi alla antropologia spirituale e la sua tipologia. Vengono descritte le esperienze dei santi nel loro itinerario verso la piena unione con Dio. (es. Le confessioni di Sant’Agostino, agiografia, ecc.).

C) Mistologici – opere teologiche, intendono di fare una valutazione sulla vita spirituale… Vengono compresi tutti i trattati teologici della vita spirituale.

2. La Teologi nella prospettiva dei Padri della Chiesa

Gli scritti mistologici non costituivano un settore speciale all’interno della Teologia durante l’intero periodo patristico, ma si presentavano semplicemente come la Teologia stessa. Nel riflettere sul mistero cristiano, i Padri rivolsero indistintamente la loro attenzione sia a Dio, sia alla vita spirituale dell’uomo, e perciò non ebbero bisogno di distinguere tra parti, branche o trattati della Teologia.

La stessa parola Teologia aveva per i Padri un significato diverso da quello attuale, non stava a significare una riflessione speculativa, intellettuale sul contenuto della Rivelazione, ma segnalava un esistere in Dio e secondo Dio, una conoscenza vitale e amorevole di Dio, di un modo do vivere di una conoscenza divenuta vita che trasforma l’intera esistenza in contemplazione di Dio. Il “teologo” dunque era il cristiano che esisteva per Dio, il cristiano contemplativo, l’uomo di preghiera. La teologia aveva un forte sapore contemplativo.

Nell’oriente Pseudo Dionigi fu il primo e per lungo tempo il solo che ha tentato di descrivere accuratamente la natura dell’esperienza mistica.

La teologia mistica si raggiunge non soltanto studiando le cose di Dio, ma sperimentandole, e attraverso la simpatia con esse, consumate nella iniziazione all’unione mistica e alla fede: cosa che non può essere insegnata”. 1

In occidente le cose stanno diversamente. Per S. Agostino (430’), il sapere teologico è sintetizzato nella famosa formula: “Intellege ut credas, crede ut intellegas”. Occorre che l’uomo che ha ricevuto l’annuncio evangelico approfondisca il significato del messaggio, capisca la sua forza redentiva, avverta la razionalità di accettare la verità che gli viene proposta attraverso la fede e apra ad essa la sua intelligenza e il suo cuore. È altrettanto importante che la fede ritorni ancora una volta sul contenuto della fede affinché possa percepire più chiaramente la verità divina. Questo fa che l’uomo si renda più consapevole della sua condizione creaturale, il che lo spinge ad amare Dio con tutto il suo cuore. Intelligenza e amore sono due aspetti di un o stesso moto dell’anima verso Dio. La “sapientia” agostiniana consiste nel riflettere sulla verità rivelata e, riflettendo, pregare.

I padri ciò che fanno è commentare la Bibbia. C’era una profonda legame tra teologia e spiritualità. Non si mettevano il problema del metodo, facevano una riflessione speculativa sulla rivelazione, ma era una conoscenza amorevole, non c’era distinzione tra conoscenza e amore di Dio. Riflettevano sulla verità e riflettendo pregavano; per gli autori medioevali è lo stesso, fino al sec. XIII quando ad es. San Beda identifica la teologia con la contemplazione.

3. Teologia e vita spirituale nell’alto medioevo

La prospettiva patristica della Teologia si protrae in maniera ininterrotta nel Medioevo occidentale fino al secolo XII. In questa scia si situa S. Beda il Venerabile che a proposito di Maria seduta ai piedi del Signore mentre Marta si dà all’azione, scrisse che non vi è che una teologia, ed è la contemplazione di Dio.

4. La teologia come scienza

A partire dal sec. XIII avviene la scoperta di Aristotele e tutta la teoria sulla natura e il merito delle scienze che portò alla configurazione della teologia come sapere in senso stretto, come un sapere che ha bisogno di una struttura. Il sistema iniziò con Pietro Abelardo.

Si può affermare che nel secolo XIII si è verificata una distinzione concettuale tra la Teologia come scienza e la conoscenza contemplativa di Dio, ma non si tratta di una vera e propria spaccatura, il che avverrà soltanto a partire dal secolo successivo.

C’era il rischio di separare nella teologia il pensiero dalla preghiera. È vero che esiste una distinzione ma non separazione. La spaccatura avvera più avanti.

5. Separazione fra teologia e spiritualità

(Separazione fra teologia pensiero e teologia preghiera). Dopo i grandi maestri scolastici del secolo XIII, a poco a poco, la teologia scolastica si discostò sempre di più dalla ricerca contemplativa. Si assistette allora a un lento “divorzio” fra teologia e spiritualità, caratteristico dell’occidente moderno. La teologia occidentale diventa sempre più speculativa, erudita, teorica e spesso arida. Si viene a trattare sempre più questioni più periferiche e non già delle verità centrali della fede e si perde di vista la loro connessione con la vita spirituale. Questa realtà è diventato u luogo comune che si consoliderà nel sec. XX. Dal sec. XV in poi ci troviamo con una teologia rigorosa nell’analisi, nel metodo argomentativo, ma mancate di una incidenza vitale; dall’altra parte sorse una sorte di letteratura pia che accoglie la vita spirituale, ma che poi è puro sentimento, dove la riflessione teologica è assente. Questo è compreso nella Devotio moderna. I suoi principali esponenti sono Groote (1384’), fondatore di questa tendenza e il libro L’imitazione di Cristo (1441), attribuito a Tommaso di Kempis. Questi autori indirizzano le anime per il cammino della devozione affettiva e della contemplazione della Santissima Umanità di Gesù, per accedere attraverso di essa alla divinità e all’unione con Dio. È proprio nel secolo XV che sarà consumata la spaccatura o “divorzio” fra teologia e spiritualità. Sono frequenti le dispute fra “spirituali” e “teologi”. Non mancano però autori che superano tale separazione, come S. Giovanni della Croce (1591’), ma in linea di massima il problema è assai generalizzato.

6. Ripristinazione della “Teologia mistica”

Mano a mano che si verificava la separazione fra teologia e spiritualità, veniva ripristinato il concetto di “teologia mistica” dello Pseudo-Dionigi e veniva contrapposto a quello di “teologia scolastica”. Dionigi il Certosino (1471’) nelle sue opere accorda il primato nella contemplazione all’intelligenza, pur riconoscendo che l’amore aiuta l’intelligenza in questa attività nel suo momento più elevato. Lui si distacca dalla corrente di pietà affettiva caratteristica della Devotio moderna. Si tratta di uno dei primi tentativi di sistematizzazione scientifica della riflessione teologica sulla vita spirituale.

La fides et ratio non è un problema nato ieri, ma è già presente in questa epoca.

7. I primi trattati di Teologia spirituale

Sarà la fine del secolo XVI e l’inizio del XVII quando appaiono i veri trattati di teologia spirituale quando in personaggi come in s. Teresa di bambino Gesù hanno scritto ciò che accadeva nell’anima. Questi trattati cercano di spiegare ciò che era l’esperienza personale nei mistici spagnoli. Cercano di presentare in forma sistematica la loro esperienza spirituale. Questi primi trattati hanno una finalità didattica per aiutare le anime, scritti con metodologia teologica e facendo ricorso alle esperienze dei santi e agli insegnamenti dei grandi dottori. Due autori:

1. 1582 Compendium dottrinae spiritualis, di un domenicano portoghese chiamato fra Bartolomeo e

2. 1566 Summa teologiae mistici, di un carmelitano francese, Filippo della Santissima Trinità.

Questi autori seguono due vie: alcuni tentano di spiegare e di ordinare la dottrina degli autori spirituali: s. Giovanni della Croce, e s. Teresa di Avila; mentre altri cercano di fare un’esposizione sistematica della vita spirituale alla luce della teologia speculativa, alla luce del dato della rivelazione. Questo sarà una costante negli autori successivi della vita spirituale. La fonte principale è la dogma per la via speculativa; un’altra linea è a partire dalla mistica.

Questi autori seguono due vie: a) una riflessione sintetica (dall’esperienza della vita dei santi) b) una esposizione sistematica (a partire dalla teologia speculativa, dalla dottrina etc.).

8. I grandi teorici scolastici del secolo XVIII

Non visto nelle lezioni.

9. La divisione della Teologia spirituale in “ascetica” e “mistica”

Nel secolo XVIII avviene una nuova separazione. Occorre sapere che significano questi termini: “un impegno personale e apertura alla Divinità”. La vita spirituale è vita in cui si integrano in armonia d’una parte il dono di Dio e dall’altra l’attività umana. Per fare riferimento a questi due aspetti si usano due parole diverse.

La parola “mistica” è d’origine greco precristiano e ha la stessa redice del sostantivo mistero. Lo Pseudo-Dionigi l’adopera per fare riferimento alla vita cristiana divinizzata, il dono che fa Dio di Sé stesso all’anima.

La parola “ascetica” è d’origine greco e fa riferimento ai martiri che sono caratterizzati dallo sforzo, impegno, esercizio di vivere santamente. Questo termine non passò al latino, ma riapparve nell’epoca moderna avendo lo stesso significato che in greco: sforzo, impegno, esercizio.

Tutte e due si cercano vicendevolmente, appaiono come correlativi e si chiariscono avvicenda. Ambedue rimandano alla realtà della vita cristiana, anche se da angolature diverse: uno fa riferimento alla comunione con Dio, e l’altra all’impegno dell’anima.

Accade pero nel secolo XVIII che gli errori degli illuministi e dei pietisti, provocarono una certa diffidenza verso l’esperienza mistica. I pietisti erano passivi, aspettavano tutto da Dio. Di fronte a questi errori ci fu una sorte di paura di tutto ciò che fosse mistica; si smise di parlare di mistica. Questo comportò che l’ascettica fosse la via ordinaria del cristiano comune, caratterizzata dall’impegno per evitare i vizi, il peccato; e l’altra via, la mistica, sarebbe straordinaria, per poche persone scelta da Dio e caratterizzata da particolari esperienze di attività con Dio. Così la vita spirituale perdeva la sua unità e ciò si manifestava nei trattati di teologia spirituale; si parla di teologia ascetica di una parte e dall’altra di teologia mistica. Questi tratti furono attribuiti a un tale Scaramelli che scrisse due opere: il Direttorio ascetico (1753’) e il Direttorio mistico (1754’).

10. Il ricupero dell’unità della teologia spirituale

Alla fine del XIX secolo c’è un risveglio per la mistica e ci fu un grande dibattito conosciuto come la questione mistica. La posizione mistica mette le seguenti domande: Quale è il rapporto tra l’ascetica e la mistica nella vita cristiana? Fino a adesso era stato visto come due vie; la mistica è per tutti o per i privilegiati?

Nel 1896 un libro scritto da un sacerdote secolare chiamato August Saudreau, chiamato “I gradi della vita spirituale”, si difendeva il carattere generale della mistica, considerandola come una tappa normale dell’itinerario cristiano d’ogni vita cristiana. Lui afferma che non c’è santo che non abbia vita mistica.

Di fronte a Saudreau reagisce André Poulain, S. J. che sosteneva il carattere ristretto ed eccezionale della mistica. Sulla scia del primo, molti pensavano che la mistica era una vita normale (Lagrange e i domenicani), mentre a Poulain lo seguivano altri come De Guibert. La discussione morì, nessuno diede braccio a torcere; la fine della polemica fu negli anni 47’ e 48’. C’è una tendenza a vedere la mistica come una dimensione comune a tutti.

CCC 2014 spiega che la via ascetica e la via mistica fanno parte alla vita cristiana. Ambedue devono essere presenti. Non sono più due vie, anzi, sono due dimensioni della vita cristiana.

Capitolo II. La natura della Teologia Spirituale

  1. Consolidamento della TS come disciplina teologica

  2. L’oggetto della TS

  3. Definizione e contenuto della TS

  4. La relazione e distinzione tra TS, T dogmatica, e T morale

  5. Le fonti e il metodo della TS

1. La teologia spirituale negli studi teologici (consolidamento della TS come disciplina teologica).

La Teologia spirituale è una disciplina molto giovane per quanto riguarda il suo inserimento tra le materie del curriculum degli studi teologici. L’ingresso nelle aule accademiche avviene nei primi decenni del sec. XX. Il processo inizia il secolo precedente quando i francescani ed i carmelitani inclusero nei loro programmi di formazione alcune letture e corsi di spiritualità.

S. Pio X nel 1910 col motu proprio: Sacro Sanctum Antisticum, raccomandò che questa iniziativa fosse seguita in tutti i seminari diocesani. Nel 1917 troviamo lezioni, corsi di spiritualità nell’Angelicum e nel 1918 la Gregoriana seguì l’esempio. Un anno dopo, una lettera del papa Benedetto XV lodava l’università Gregoriana per creare una cattedra di teologia ascetica e mistica. Nel 1931 Pio XI con la Cost. Ap.: Deus Scienziarum Dominum introdusse nei piani di studi delle facoltà teologiche un corso di teol. asceticha e un altro di teologia mistica. La creazione di queste due cattedre favorì i teologi nello studio; fecce scattare il processo che guidò allo superamento della divisione delle due vie e ad affermare l’unità della vita spirituale.

Nel 1970’ in cui il doc. Ratio fundamentaili Istitutionis sacerdotalis, conteneva le direttive concrete per attuare il decreto Optatam Totius, e già si parla di una teologia spiritualis, una materia che dovrebbe essere complemento della teologia morale.

Infine, nella Cost. Ap.: Sapientia Christiana del 1979, si parla della teologia spirituale come disciplina obbligatoria del primo ciclo istituzionale; non più come complementaria della teologia morale, ma con uno status proprio.

Questa dicitura di teologia spirituale permette di superare quella spaccatura tra ascetica e mistica, che sono due dimensioni della medesima vita spirituale; in secondo luogo, annunzia l’oggetto proprio e cioè la vita spirituale; e in fine, rispecchia il suo livello teologico.

2. Oggetto della teologia spirituale

L’oggetto della TS intende considerare in maniera teologica la spiritualità o la vita secondo lo spirito. Intende spiegare, presentare o parlare di questa vita. Riguardo a questo oggetto la letteratura teologica ha usato diverse espressioni come: vita spirituale, interiore, soprannaturale, spiritualità, santità, cristiana – in realtà si parla della stessa cosa con diverse sfumature. Se si guardano i titoli di diversi manuali dal 1920 si vede come segue questo cambiamento.

Vita spirituale – vita significa attività che nasce dal soggetto che la realizza. La vita spirituale è l’attività propria dello spirito. Ci parla del uomo che è capace di amare, di trascendere (in quanto capace di trascendere la materia) e agisce sviluppando una capacità di conoscere e di amare.

Questa descrizione è insufficiente, bisogna aggiungere il riferimento a Dio. La vita spirituale si estende ad un rapporto con Dio, con gli altri e con il mondo. È una vita implica sviluppo, che cresce, implica una tensione verso la pienezza che porta alla comunione con Dio, un estendersi dell’anima verso Dio è ciò che studiamo come l’oggetto. Si tratta della vita cristiana.

Bisogna parlare dello Spirito in riferimento a Dio, che è Spirito e vita; allora il senso più profondo di vita spirituale è la vita che si sviluppa quando l’uomo si sa interpellato da Dio ed è consapevole di essere abitato dallo SS. È una vita che implica uno sviluppo, una tensione verso la pienezza; c’è un dinamismo vitale che spinge alla comunione con Dio. Questo distendersi dell’anima verso Dio è ciò che studia la TS.

Queste dimensioni ci spingono a considerare che siamo davanti a una vita cristiana e ci sono 6 tratti che la caratterizzano:

  1. È una vita teologale, che si svolge in atteggiamento di risposta a Dio e pertanto in dialogo e in comunicazione con Dio.

  2. È una vita Cristocentrica, attraverso l’identificazione con Lui, con la sua persona. Il cristianesimo è l’incontro con una persona: con Cristo.

  3. È una vita pneumatologica (identificazione con lo SS), che ci spinge nel rapporto figliale con il Padre.

  4. È una vita Ecclesiale: nasce e si sviluppa nella Chiesa, la Chiesa è l’ambito dell’incorporazione in Cristo. Il cristiano ha bisogno dei sacramenti, la predicazione, la liturgia, tutto questo si trova nella Chiesa.

  5. È una vita storica, incarnata, secolare. La chiamata che Dio rivolge all’uomo non allontana l’uomo da questo mondo, anzi la chiamata fa scoprire il senso profondo degli avvenimenti nella storia ed è invito di assumere la storia in atteggiamento di fede, cercando di condurre le realtà temporali a Dio.

  6. È una vita escatologica, in tensione, iniziata ora e destinata ad una pienezza raggiunta alla fine della storia.

(21/2/07)

Espressioni equivalenti a vita spirituale.

Vita interiore. Fa riferimento a vita di orazione. Fa riferimento poi alle potenze spirituali dell’uomo e al fatto che questa vita si svolge all’interno dello spirito umano. Diversi autori considerano che si tratti di un sinonimo di vita spirituale anche se nella letteratura devozionale vita interiore ha un senso più ristretto; si sottolinea che avviene all’interno dello spirito umano.

Vita cristiana. Il fine specifico che il cristiano deve raggiungere è l’identificazione con Cristo. Il battezzato è un membro innestato in Cristo.

Vita soprannaturale. Si tratta della vita della grazia ed è in contrapposizione alla vita naturale. Vuole mettere l’accento sul fatto che la nostra è una destinazione al fine soprannaturale; siccome questa vita è anche una attività dell’anima in grazia la si identifica con la vita di grazia.

Spiritualità. Esperienza di vita spirituale. È un concreto stile di vita vissuto. Presentare la teologia spirituale come esperienza della vita cristiana con Dio, vuol dire descrivere le vie e le modalità in cui questa vita si manifesta; il modo in cui il credente si identifica con Cristo. In questo senso diciamo che ciò che si vuole è che la teologia spirituale non sia vista come una tendenza a creare un sistema ideale, senza aggancio alla vita vissuta.

Santità. La nuova vita del cristiano con il battesimo deve informare tutta l’esistenza, manifestandosi nelle opere in modo tale d’apparire come processo di progressiva santificazione. La santità si deve esprimere nelle opere. I primi cristiani si chiamavano fra di loro santi.

3. Definizioni e contenuto della Teologia spirituale

Definire una scienza è frutto dell’osservazione della scienza stessa. Ci sono tre definizioni di tre autori diversi: (una di queste dobbiamo sapere perfettamente per l’esame!).

i. Aumann, Spiritual Theology. “La teologia spirituale è quella parte della teologia che procedendo dalle verità della rivelazione divina e dall’esperienza religiosa delle singole persone, definisce la natura della vita soprannaturale, formula le direttive per la sua crescita e sviluppo e spiega i processi tramite i quali le anime avanzano dall’inizio della vita spirituale alla sua piena perfezione”.

ii. Ch. A. Bernard, Teologia spirituale. “La Teologia spirituale è una disciplina teologica che, fondata sui principi della rivelazione, studia l’esperienza spirituale cristiana, ne descrive lo sviluppo progressivo e ne fa conoscere le strutture e le leggi”.

iii. F. Ruiz Salvador, Caminos del espìritu. “La teologia spirituale è la parte della teologia che studia sistematicamente, in base alla rivelazione e l’esperienza qualificata, la realizzazione del mistero di Cristo nella vita del cristiano e della Chiesa, che si sviluppa mediante l’azione dello SS e la collaborazione umana fino a giungere alla santità”.

Sebbene sono tre definizioni diverse, coincidono in tre elementi:

  1. La vita cristiana è una scienza teologica, un sapere la cui finalità non è ordinare la vita, bensì comprenderla. È un sapere speculativo anche se ripercuote sulla vita.

  2. La realtà studiata è la vita cristiana vista in tutta la sua pienezza, tenendo conto la crescita e lo sviluppo.

  3. La vita spirituale è studiata non in astratto, nei suoi componenti, bensì in concreto, prende in considerazione ciò che realmente è sperimentato e vissuto.

Il contenuto della teologia spirituale. Se la Teologia spirituale si occupa dell’esistenza cristiana dal punto di vista della comunione dell’uomo con Dio, è ovvio che debba preoccuparsi di Dio stesso; più concretamente di Dio che entra in contatto con l’uomo e gli comunica la sua stessa vita.

Dovrà preoccuparsi dell’uomo, della sua struttura ontologica, sua capacità di comunicare con Dio. Tratterà della preghiera, come momento d’incontro con Dio. Dovrà poi occuparsi del mondo, la realtà in cui vive l’uomo e tramite il quale entra in comunione con Dio. Questa scienza prende parti di altre scienze: la dogmatica. Essa è panoramica, prende diverse parti e lo vede dal punto di vista dell’incontro dell’uomo con Dio.

23/2/07

Azione e Distinzione tra TS e TM e Dogmatica: (non c’è nelle dispense)

Una prima visione vede la teologia spirituale come quella che si occupa dei consigli, invece la teologia morale di precetti. È da rifiutare una visione che stabilisce due livelli dove il secondo piano sarebbe soltanto per alcuni.

La seconda visione. Rinnovamento della teologia morale, con nuovi fonti, con la esegesi, con lo studio della morale dei padri, con il superamento della casistica e l’apertura della visione di santità. Vermeesch: la teologia spirituale avrebbe lo scopo di regolare e di promuovere lo sviluppo della vita cristiana, non sarebbe tanto una scienza, quanto l’arte per dirigere i cristiani verso la pienezza cristiana. Così la TM e TS sono complementari. La TS sarebbe complemento alla TM. Anche questo è stato superato.

Terza visione. La distinzione non sarebbe come fra una scienza e un’arte. Entrambe sono scienze e studiano la vita cristiana in modo teoretico, ma agiscono da angolature diverse, in base alla distinzione fra metodo analitico e sintetico. La TM studia l’agire cristiano in quanto identificazione con Cristo, e le virtù che si devono mettere in esercizio in quei atti che realizza la vita cristiana. Fa una analizza dei atti, studia un atto per atto. Alla TS non interessa l’analisi d’ogni singolo atto e la sua conformità con l’ideale cristiano; gli interessa invece l’insieme della vita cristiana in quanto processo, sviluppo che porta a quella pienezza della vita in Cristo.

La vita cristiana costituisce l’agire di chi nella sua esistenza si sa essere figlio di Dio. Non c’è vita morale senza spiritualità. Né è possibile una spiritualità senza una condotta concreta, precisa. Quell’ispirazione di fondo si manifesta tramite atti concreti. La TM è analitica (vedere l’atto particolare), mentre la TS è sintetica (vedere l’insieme). La TS analizza la fascia della crescita, lo sviluppo della vita spirituale e non soltanto i singoli atti.

TS & Teologia Dogmatica (TD). Una prima concezione era che la teologia dogmatica studia l’essere mentre l’altra l’agire. Con il tempo si è fatto più mobile il rapporto fra la dogmatica e la TS. Lo sviluppo della dogmatica si è rinnovata sottolineando sempre di più la relazione fra verità cristiana (oggetto della TD) e la vita e vice versa. La verità cristiana (TD) studia anche Dio che si rende uomo e ci vuole santificare, esigendo da noi un agire concreto. C’è un’azione con cui Dio attira l’uomo e poi l’atto con cui l’uomo si apre a Dio e la vita divina. Qua entrerebbe la teologia spirituale. TD e TS si presenterebbero come discipline diverse sia da punto di vista dell’oggetto; TS (la appropriazione soggettiva del dono di Dio). E poi la diversità di metodologia: TD più analitica, TS più sintetica.

Il problema gnoseologico pratico

Fonti. Distinzione fra teologia morale e spirituale.

I luoghi a cui fa ricorso sono i seguenti: innanzitutto la scrittura e la Rivelazione divina offrono ogni criterio di valutazione. In secondo luogo la fonte è l’esperienza cristiana dei santi. La terza fonte è l’esperienza della Chiesa, il senso della fede per cui la Chiesa ha valutato lungo i secoli esperienze e cammini- consigliabili o non. In fine c’è la comune esperienza umana e delle scienze che studiano e analizzano la scienza umana (la filosofia, antropologia, psicologia, sociologia…). Queste scienze apportano riflessioni e dati, che valutati alla luce di precedenti fonti, contribuiscono allo sviluppo e configurazione scientifica della disciplina.

Caratteristiche metodologiche proprie della Teologia spirituale.

La TS adopera due metodi:

a. Descrittivo che accoglie e analizza l’esperienza dei santi. Ordina sistematicamente l’esperienza, li paragona e cerca le leggi comuni.

b. Il metodo deduttivo- dottrinale che seguendo una via analitica tenta di mostrare le conclusioni che si possono trarre della vita spirituale a partire di quanto insegna la fede della Chiesa.

La molteplicità delle fonti implica una metodologia diversificata: in parte storico, … se si fa uno studio sulla mortificazione, prima si guarderà che si dice sulla mortificazione nella rivelazione; uno storico, come si è vissuto la mortificazione nella storia; poi la psicologia.

Parte II. Dimensioni costitutive della vita cristiana.

Contiene: La santità cristiana, inabitazione della santissima, la filiazione del cristiano, la santità e identificazione con Cristo, la vita secondo lo Spirito, la dimensione ecclesiale della vita spirituale, dimensione mariana della vita cristiana, dimensione secolare della vita cristiana (visione apostolica).

Capitolo 3. Vita spirituale in pienezza: la santità cristiana

1. L’uomo, essere chiamato alla piena comunione con Dio Uno e Trino

La vita spirituale è appropriazione divina dei dogmi; vedremo questioni già studiati in altri trattati, ma da un’angolatura diversa.

La ragione ultima che spiega l’altissima dignità dell’essere umano consiste nella sua vocazione alla comunione con Dio Uno e Trino, perché “fin dal suo nascere, l’uomo è invitato al dialogo con Dio”. Se l’uomo esiste è perché Dio lo ha creato per l’amore. L’uomo è un essere finalizzato a Dio e quindo non può trovare la sua felicità all’infuori di Dio, giacché la vocazione ultima dell’uomo è effettivamente una sola, quella divina. “Il nostro cuore non posa finché non riposa in te”2. Il fine ultimo è la perfetta comunione con Dio, la santità. I santi sono in cielo, ma esiste anche sulla terra, come preludio della beatitudine eterna.

2. Insegnamenti biblici sulla santità

Qadosh”- santo, proviene dal radice “qud”, che esprime l’idea di tagliare, separare. Il fatto che Dio è santo sta a significare l’assoluta trascendenza di Dio, nei confronti delle creature, di tutto ciò che ha creato. Dio non è il creato, ma ha creato. Os 11,9: “sono Dio e non uomo, sono il Santo in mezzo a te”. 1 Sam 2,2: “non c’è santo come il Signore”. Nel linguaggio biblico “santo”non esprime una caratteristica in più di Dio ma la sua essenza, qualcosa d’assolutamente diverso.

Questa santità, Dio lo comunica santificando le sue creature, Israele diventa una nazione santa, separata dal resto dei popoli. Sono chiamate poi sante alcune realtà che vengono destinate al culto: il tempio, i sacerdoti, il sabato (giorno santo). Qualcosa è santo quando viene separato dal uso profano, è oggetto di culto.

Nel NT Gesù viene chiamato “santo” dall’arcangelo Gabriele (Lc 1,35: Colui che nascerà sarà chiamato santo e Figlio di Dio). Santo sarà il suo nome perché la sua natura, essenza è divina, si chiamerà il “santo di Dio”.

Gesù comunica questa santità alla sua Chiesa. Così i cristiani sono i santificati in Cristo Gesù: 1 Cor 1,2: “I santificati in Cristo Gesù”. Tale opere di santificazione avviene in stretto rapporto con lo SS, lo Spirito di Gesù, del Santo di Dio. Il Padre invia lo Spirito attraverso Cristo, Cristo è portatore dello Spirito, e lo lascia a tutta la comunità cristiana, facendo partecipe la comunità alla stessa santità divina. Costituisce la Chiesa in un popolo santo. I primi cristiani si chiamavano fra di loro santi. Rispetto all’AT il NT realizza un doppio approfondimento nell’idea di santità:

  1. La partecipazione all’uomo ai poteri di Cristo tramite il battesimo e la ricezione dello SS. C’è un inizio nell’uomo dei beni divini del regno promesso.

  2. Il popolo di Dio non è solo Israele ma la Chiesa che si rivolge a tutti i popoli. Visione universale.

3. Analisi teologica del concetto di santità

Nel uso del concetto biblico di santità si intrecciano due piani: il processo di salvezza di Dio che coinvolge l’uomo, un azione invisibile (che trascende lo sperimentale)- la santità ontologica; e poi l’altra che sarebbe un riferimento ad un comportamento umano (qualcosa di osservabile)- la santità morale, etica. La santità è una ma composta da questi due piani.

A. Santità ontologica

La santità ontologica ci parla di beni divini ricevuti da Dio. La grazia santificante, la filiazione divina, l’essere una nuova creatura in Cristo, il dono dello SS, ecc. questo sarebbe la santità come dono. Consiste nella rigenerazione dell’uomo che così diventa partecipe della natura divina, famigliare di Dio. Ci fa partecipare all’ontologia divina, è una vera e propria divinizzazione, deificazione dell’uomo. L’uomo è divinizzato e deificato.

B. Santità etica o morale

Non è cosa diversa, ma la manifestazione e lo sviluppo della santità ontologica, che si manifesta nel tutto l’agire cristiano. 1Pt 1,15-15: “Ad immagine dei santi che vi ha chiamati, diventate santi anche voi in tutta la vostra condotta; poiché sta scritto: Voi sarete santi perché io sono santo”. La santità non è più un dono ma un compito. Implica diventare ciò che già siamo. Ef 4,1: “camminate in maniera degna della vocazione a cui siete stati chiamati”. La santità morale etica appare come finalità, come scopo da raggiungere. La vita del cristiano può essere descritta come opera di santificazione.

C. Rapporto intrinseco fra santità ontologica e morale

Il CVII nel LG 40 esprime il rapporto intrinseco come: “I seguaci di Cristo, chiamati a Dio non a titolo delle opere, ma secondo il disegno della sua grazia e giustificati in Gesù, nel Battesimo della fede sono stati fatti veramente figli di Dio e compartecipi della natura divina e perciò realmente mantenuti santi (santità ontologica). Essi quindi devono, con l’aiuto di Dio, mantenere nella loro vita e perfezionare la santità che hanno ricevuta (santità morale)”.

4. Santità ed esercizi eroico delle virtù (X)

(Non visto nelle lezioni)

5. La chiamata cristiana universale alla santità nella Chiesa: insegnamenti biblici e vicende storiche

Ogni cristiano è chiamato alla santità e può diventare santo che costituisce un obbligo per tutti.

A. Insegnamenti biblici

Si trova nel Lv 20,26: “sarete santo per me perché io sono santo, e vi ho separato da altri popoli perché siate santi”. Anche l’antica legge comanda di amare Dio in pienezza (Dt 6,4-5: “Amerai il Signore con tutto il cuore, anima e forze”), L’esigenza di radicalità d’amore altro non è che un forte richiamo alla santità di vita e costituisce il più grande e il primo dei comandamenti.

Nel NT Gesù parla di questa esigenza Mt 5,48 “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste”. L’essere perfetto significa compiere radicalmente la volontà di Dio. Nell’insegnamento di S. Paolo sulla vita cristiana si parla della necessità della santità Ef 1,3-4: “Cristo ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità”.

B. Vicende storiche

Nei primi tre secoli del cristianesimo la conversione e l’accoglienza della fede implicavano un fermo desiderio di santità. Comportava un alto livello nella pratica delle virtù. Motivo: ogni cristiano era consapevole d’essere un martire in potenza. Essere pronto al martirio comportava una santità che si manifestava nella vita quotidiana. Chi si convertiva sapeva che ci sarebbe un scontro con il governo. Accade che nel 313’ ci fu l’editto di Milano. La Chiesa non è più perseguitata. L’aumento di numero non è anche l’aumento di qualità. Ci fu con la fine della persecuzione, un indebolimento della vita cristiana.

L’assenza di un modello di santità, come ciò offerto dai martiri, fu offerta dalla testimonianza dell’eroe che partiva al deserto per combattere contro il demonio. Il monachesimo fu la risposta ad una Chiesa che perdeva vigore e trovava difficoltà di vivere la santità nelle città. L’inizio del monachesimo è curioso. L’indebolimento della fede, con momenti di carestia, con povertà. I cristiani che volevano vivere una vita cristiana trovavano difficoltà. Si esce dalla città per difficoltà di vita, sia per motivi di santificazione. Una via di fuga fu il deserto.

Così si oscurò la chiamata universale alla santità. La Chiesa non ha mai affermato che ci sono persone non chiamate alla santità, ma l’idea comune fra la gente era di due livelli: il primo di precetti e il secondo era quella che aspirava a qualcosa di più, qualcosa non obbligatorio per tutti. Questa divisione viene descritto in un testo del 11 sec. raccolto nel decreto di Graziano: Dua genera cristianorum: “Vi sono due generi di cristiani, uno legati al servizio del divino, dedito alla preghiera e contemplazione, si astiene da ogni rumore delle realtà materiali. È costituito da chierici e monaci. L’altro è quello al quale appartengono laici. Ad essi è consentito possedere beni temporali, è lecito sposarsi, coltivare la terra, essere arbitri in giudizio, essere parte in causa, offrire oblazione sull’altare, pagare le decime. Così possono salvarsi se facendo il bene evitano i vizi”.

Della Ponte: mostra il divario dei cristiani che non aspirano a qualcosa in più. Poi ci sono quelli che imitano Gesù più da vicino: i religiosi.

Tre autori:

1. San Francesco di Sales 1567-1622. Ha cercato di superare nella pratica gli schemi dei due generi, collegando la santità con la vita in quale ognuno è toccato vivere. Per Francesco, ogni cristiano per la concreta situazione in cui si trova, deve adeguarsi al compimento della volontà di Dio. Deve essere portato a termine nella situazione in cui ognuno si trova. C’è un progresso pastorale. C’è l’importanza della ricerca della santità.

2. S. Alfonso Maria de Liguori 1696-1789. Insiste sulla vita devota come necessaria per tutti. Vuole raccogliere la comunità nella Chiesa, la comunione ogni otto giorni, meditazione sulla passione ogni mattina e l’adorazione eucaristica ogni sera.

3. S. Josemaria Escrivà 1902-1975. Lui già nell’anno 30’ affermava che la santità non è una cosa privilegiata, si aspetta a tutti. La santità nella vita quotidiana, semplice. Tutti i cammini della terra possono essere camini di santità. Tre idee: a. si predica la necessità della santità nelle due dimensioni: soggettiva (tutti sono chiamati) e oggettiva (tutte le circostanze della vita possono essere luogo di santificazione e mezzo). b. la chiamato della santità non esige un cambiamento nel mondo (1 Cor 7,20: Ciascuno rimanga nella circostanza in cui era quando è stato chiamato). c. Ogni attività umana può essere luogo e mezzo per vivere l’amore cristiano in cui c’è la pienezza della legge.

6. La dottrina del Concilio Vaticano II

Le affermazioni sulla chiamata universale della santità contenute nel cpt. V nel LG sono state giudicate da Paolo VI come obiettivo peculiare del magistero del concilio e come sua ultima finalità. Giovanni Paolo II in un Angelus del 29 Marzo del 1987 disse che le affermazione sulla chiamata alla santità sono state come un fulcro del rinnovamento delineato nel concilio. L’importanza attribuita a questa dottrina non significa che sia una novità nella vita cristiana. L’essenza del messaggio non può essere nuova. Non si può parlare di dottrina nuova, forse la novità è nella chiarezza, profondità e forza della dichiarazione della chiamata universale alla santità. Si tratta di sottolineare ciò che viene dal battesimo, ciò che è esigibile da ogni cristiano. Si sono segnalati alcuni precedenti magisteriali su questa dottrina. LG n. 40 ha una nota molto importante: “è evidente che tutti i fedeli cristiani di qualsiasi stato e ordine sono chiamati alla perfezione della vita della santità e alla perfezione della carità. Qua nel testo è inserita una nota a piedi pagine che parla di altri testi magisteriali sulla tema mostrando che non è dottrina nuova:

La santità non è ai pochi individui, non ha eccezioni. Le riforme hanno portato alla rinnovata visione sulla Chiesa. Ciò fa emergere la dimensione spirituale della Chiesa.

Per arrivare al LG cap. V n. 39-42, c’è la fusione di due vie: A. Il rinnovamento della teologia (movimento biblico, liturgico) che ha comportato che l’aspetto spirituale apparve con maggiore forza. Ha fatto emergere la Chiesa come sacramento. B. L’altro elemento è stato la vita della Chiesa stessa, in concomitanza con il movimento teologico, essa ha capito l’azione del laico nella Chiesa. Cinque manifestazioni di questa consapevolezza di laici nella Chiesa:

  1. Operai cattolici nei paesi di nord Europo J.O.C- giovanni operai che fanno un’associazione (in Belgio ed in Francia guidato da Cardijn).

  2. I movimenti di apostolato di famiglia- L’equipes de Notre Dame di Cafarell. Loro promuovono l’apostolato della famiglia. Così anche in Italia nel 39’.

  3. La promozione della Azione Cattolica- promossa dalla gerarchia stessa.

  4. Le nuove forme della ricerca della santificazione nel mondo. Sono gli istituti secolari. È una consacrazione nel mondo.

  5. Opus Dei che sorge nel 28’, sorto per cercare la santità attraverso la santificazione del lavoro.

Di fronte a queste realtà il magistero non resta quieto. I Santi Padri sottolineano di più la chiamata universale della santità.

A. Fondamenti teologici

Motivo cristologico. LG 40: Il Signore Gesù maestro e modello di ogni perfezione a tutti i discepoli ha predicato quella santità di vita di cui egli stesso è modello.

Motivo ecclesiologico. LG 39: La Chiesa è agli occhi della fede indifettibilmente santa, così tutti della Chiesa appartenenti alla gerarchia oppure retta da essa, siano chiamati alla santità (n.39).

Motivo sacramentale. LG 40: I seguaci di Cristo nel battesimo della fede sono stati fati veramente figli di Dio e compartecipi della natura divina e perciò veramente santi. La Chiamata alla santità si realizza attraverso la ricezione del battesimo. La Chiesa deve dire che tutti i battezzati sono chiamati alla santità.

B. Esercizio multiforme dell’unica santità

LG 41: Nei vari generi di vita e nei vari compiti una unica santità è coltivata da quanti sono mossi dallo SS. Invece questa santità non è identica per tutti. Ognuno secondo i propri doni e uffici deve senza indugi avanzare per via della fede viva, la quale accende la speranza e opera per mezzo della carità. “Tutti quelli che credono in Cristo saranno ogni giorno più santificati in quelle circostanze che sono quelle della loro vita, e per mezzo di tutte queste cose”. Non dice soltanto che ci sia una chiamata universale, ma dice anche come si raggiunge.

C. Conseguenze della proclamazione della chiamata universale alla santità

Ci sono quattro conseguenze:

  1. Risveglio della dignità della vocazione cristiana. Il fatto d’essere cristiano né è decisione, né è culturale, è una chiamata da Dio di avere la vocazione cristiana.

  2. L’approfondimento teologica di una spiritualità specificamente laicale.

  3. L’approfondimento fra vocazione e missione, in quanto si mette in rilievo il senso vocazionale della propria condizione di vita.

  4. L’affermazione della profonda relazione tra creazione e redenzione (tra grazia e natura). La santità non si edifica al margine della realtà creata, ma propriamente in essa- profonda relazione fra creazione e redenzione.

Cpt. 4 L’inabitazione della Santissima Trinità

1. La conoscenza della Trinità, il frutto e fine della vita cristiana

Tutta la vita cristiana è orientata verso la conoscenza e l’amore del mistero della SS. Trinità. S. Tommaso afferma che la conoscenza della Trinità nell’unità è il frutto e il fine di tutta la nostra vita (Sentenze IV i pars q. 1), è il fine ultimo perché siamo stati creati e innalzati allo stato di grazia, proprio per poter raggiungere la piena conoscenza e pieno amore della Santissima Trinità e allo stesso tempo è puro frutto in quanto possiamo raggiungerla perchè le persone della Trinità si lasciano possedere per il mistero dell’inabitazione.

2. Insegnamenti biblici e patristici sull’inabitazione

A. AT

Anche se la rivelazione di questo mistero appartiene al NT, tuttavia viene preceduta da una tradizione veterotestamentaria. Nell’AT si parla della presenza di Dio in tutte le cose Sal 39,7: “Dove andare lontano dal tuo spirito, dove fuggire dalla tua presenza? Se salgo ai cieli, là tu sei, se scendo negli inferi, eccoti”. Non è solo presenza d’immensità, ma anche di una speciale presenza di Dio in mezzo al suo popolo (la nube- Es, il fuoco- nelle vittime delle alleanze, la tenda- con l’arca dell’alleanza), ed in alcuni di suoi eletti (parla in faccia a faccia con Mosè).

B. NT

La dottrina NT dell’inabitazione si trovano soprattutto in Paolo e Gv, dove troviamo questa dottrina sotto due aspetti:

1. L’aspetto statico (di un unione amichevole di fruizione, conoscenza e amore);

2. L’aspetto dinamico che porta ad attuare per la santificazione.

In S. Paolo la dottrina dell’inabitazione è centrata sulla presenza dello SS con la prevalenza dell’aspetto dinamico. 1 Cor 6,19: “Il nostro corpo è tempio dello SS”. Tempio di Dio vivente 2 Cor 6,16. Poi la conclusione è in Rm 8,11: “Se lo Spirito di colui che ha risuscitato Cristo dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi”. Per l’apostolo essere abitato dallo SS significa essere abitato da Cristo.

Lo Spirito interiorizza, porta a compimento l’opera di Cristo, conduce a vivere una vita figliale in religioso ossequio al Padre: 1 Tes 4,7 “Dio non ci ha chiamati all’impurità, ma alla perfezione e per questo ci ha dato il suo Santo Spirito”. Allora in Paolo la dottrina dell’inabitazione è centrato nello SS che porta d’agire in santità.

In S. Giovanni prevale l’idea statica dell’inabitazione. Gv 1,14: Cristo è venuto a “Porre la sua tenda fra noi”. Gv 17,4: “ho fatto conoscere il tuo nome agli uomini che mi hai dato”. Il conoscere in Giovanni è una conoscenza intima, esperienziale affettiva che non è possibile senza l’unione con le persone divine. La conoscenza giovannea, è possessione, unione e amore.

1 Gv 4,7: “Dio è amore, chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui”. Il testo decisivo è in Gv 14,23: “Se uno mi ama osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà, e noi verremo in lui e prenderemmo dimora presso di lui”. Sotto il profilo dinamico: sigillo e segno dell’inabitazione divina- 1Gv 3,24 “Chi osserva i suoi comandamenti dimora in Dio ed egli in lui. E da questo conosciamo che dimora in noi: dallo Spirito che ci ha dato”.

La visione biblica dei rapporti fra Dio e l’uomo trova la più compiuta espressione nella dottrina dell’inabitazione trinitaria in crescendo dall’AT al NT.

3. L’inabitazione nella tradizione patristica

Ciò che dicono i Padri possono essere riassunti in tre affermazione:

  1. Dio inabita propriamente nell’anima del giusto.

  2. Le tre divine persone sono presenti in essa.

  3. Questa presenza è opera dello SS.

4. Magistero della Chiesa sull’inabitazione

Anche se la dottrina dell’inabitazione appartiene alla dottrina della Chiesa, è stata sviluppata dal magistero in epoca recente. Nel Simbolo di S. Epifanio del 324 dove i catecumeni prima di ricevere la cresima dicevano: “crediamo nello SS che parla negli apostoli e abita nei santi”. Leone XIII: nell’enc. Divinum Illud munus il papa traccia una panoramica dell’azione dello SS nella Chiesa: “questa mirabile unione, detta inabitazione è prodotta in maniera reale dalla Trinità, e viene attribuita allo SS. Pio XII in Mistici Corporis del 1943 parla dell’inabitazione come mistero profondo e oscuro in cui le Persone divine si pongono in relazione con l’anima mediante la conoscenza e l’amore. GP II in Dominum et Vivificantem n. 58 del 1986: descrive l’inabitazione come “Un aprirsi mutuo fra le persone divine e la creatura umana”; “l’uomo entra in una realtà nuova, è introdotto nella vita trinitaria, tempio dello SS. Anche il CCC raccoglie questa dottrina in n. 2781.

5. Dottrina teologica sull’inabitazione

4 Idee:

  1. Sul fatto dell’inabitazione e della presenza della Trinità nell’anima, i teologi concordano che si tratta di una presenza vera e reale, non metaforica, di tutte e tre le Persone divine, anche se molti autori parlano dell’inabitazione dello SS. Dove c’è lo SS c’è il Padre e il Figlio.

  2. L’inabitazione ha luogo in tutte le anime che possiedono la grazia e la carità e solo in esse. Sono condizioni indispensabili per tale presenza.

  3. Bisogna precisare che si tratta del dono della presenza delle stesse divine Persone, e non solo dei doni santificanti. È necessaria la donazione della grazia, virtù teologali, doni dello SS per abilitare l’anima di questi rapporti nuovi di conoscenza e amore della Trinità. Sia la presenza delle Tre Persone, sia la presenza delle virtù, i doni dello SS, sono tutte realtà intimamente connesse, non separabili.

  4. I teologi sono d’accordo sul fatto che la conoscenza e amore entrano come fattori necessari nell’inabitazione. Alcuni parlano d’elementi costitutivi dell’inabitazione, altri di componenti prioritarie, ma alla fine è lo stesso. La conoscenza e l’amore sono elementi necessari per l’inabitazione. Sono richiesti non solo allo stato di atti, ma bensì allo stato attuale di conoscenza e amore. La conoscenza e amore sono abiti soprannaturali che i doni inabilitano.

5. L’esperienza dei santi

L’inabitazione della SS Trinità, oltre ad essere un mistero di fede, è un’esperienza vissuta dai santi. Alcuni di loro ci hanno scritto questa esperienza ineffabile:

S. Catterina di Siena. Il mistero della Santissima Trinità ha una risonanza nelle sue esperienze. Lei scrive sul sangue di Cristo- simbolo dell’amore redentore di Cristo. Nel suo dialogo, l’opera finisce con una preghiera della Trinità che è fra le più elevate delle preghiere cristiane.

Tu Trinità sei come un mare profondo, più cerco, più ti bramo. Vedendo me in te, vedo che sono tua immagine per quella intelligenza che mi vien donata della tua potenza, o Padre eterno e della tua sapienza che viene appropriata al tuo unico Figlio”.

S. Teresa di Gesù, Castello interiore, mansione settima. Lei divide la struttura dell’anima con sette mansioni (stanze).

S. Elisabetta della Trinità (1880-1906) in cui la sua opera riporta una ricchissima esperienza dell’inabitazione. Lei si sentiva inabitata della Trinità senza conoscere il mistero dell’inabitazione divina, fino a quando interrogò il suo confessore.

7/3/07

Cpt. V La filiazione del cristiano

Tramite Cristo l’uomo in grazia è inserito alla vita di grazia, può vivere come Figlio di Dio. La realtà della filiazione divina del cristiano costituisce il centro della vita del cristiano.

  1. Insegnamenti biblici e patristici sulla filiazione divina (FD)

  2. La dottrina teologica sulla filiazione divina

  3. L’esperienza dei santi sulla filiazione divina.

1. Insegnamenti biblici e patristici sulla filiazione divina

A. AT

L’AT non dà molta rilevanza al nome di Dio come “Padre” (soltanto 15 volte). Gli Israeliti intendevano la paternità di Dio in un senso collettivo con un significato che significava autorità e misericordia. Da una parte stava a significare la sovrana autorità di Dio; dall’altra, la sua misericordia.

Dio si manifestò coma Padre: Tu dirai al Faraone “Israele è il mio Figlio unigenito” Es 4,22. “quando Israele era giovinetto, lo ho amato e da Egitto ho chiamato mio figlio” Os 11,2. Di fronte all’infedeltà i profeti fanno ricorso alla misericordia di Dio invocandolo come Padre Is 63,13: “Tu sei il nostro padre, da sempre ti chiami redentore”. Da questo appello Dio risponde con eterna misericordia. Ger 31,20: “non è forse Efraim un Figlio caro per me…”. È sempre un senso collettivo della paternità (paternità di un popolo e non personale). Bisogna aspettare la letteratura sapienziali per sentire un invocazione a Dio come padre nella invocazione personale di Sir 23,1: “Signore, padre e padrone della mia vita, non abbandonarmi al loro volere, non lasciarmi cadere a causa loro”.

B. NT

Gesù Cristo, Rivelatore della filiazione divina. Gli evangelisti mettono nella bocca di Gesù il nome di Padre 170 volte, in Gv 109. Padre diventa nell’ultimo Vangelo un sinonimo di Dio. Sta a significare il progressivo approfondimento della filiazione divina nella primitiva comunità cristiana. Il Signore si rivolge al Padre con Abbà. Gesù rende i suoi discepoli partecipi della sua posizione di Figlio. Gesù segnala una differenza esistente fra la sua filiazione naturale e quella nostra che è in forza di un dono gratuito da Dio. Gv 20,17 “Va dai miei fratelli e dì loro, io salgo al Padre mio e Padre vostro”.

L’adozione a figli di Dio secondo S. Paolo. S. Paolo si usa del termine “adozione”. Gal 4,4-5: “Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, [5]per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l'adozione a figli.” Inoltre nei insegnamenti di S. Paolo la nozione della filiazione divina è legato all’idea dello SS e all’eredità: Rm 8,14-17:

14 Tutti quelli infatti che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio. [15]E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: «Abbà, Padre!». [16]Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio. [17]E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria.

Per S. Giovanni, vita di fede è vita in Cristo. Mediante la fede si realizza l’ingresso nel regno del Padre. Gv 1,12-13 “A quanti però l'hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, [13]i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati”. Chi crede in Cristo partecipa a questa filiazione e la pienezza della vita figliale è destinato alla fine escatologica. 1 Gv 3,1: “carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremmo non è stato ancora rivelato”.

C. Testimonianza patristica

Nel Didachè Dio è Padre dei credenti, invocato con il Padre nostro. Le due preghiere eucaristiche iniziano con: “ti rendiamo grazie Padre nostro..”. Per s. Ireneo l’adozione a figli è fine dell’incarnazione del Verbo: “Per questo appunto il Verbo si fece uomo affinché l’uomo mescolandosi a Dio, ricevendo l’adozione filiale, diventi figlio di Dio”. S. Cipriano insegna le conseguenze morali del dono della filiazione. “Quanto benigno sia Dio. Ha voluto che noi pregassimo davanti a sé in modo tale da poterlo chiamare Padre, e che come Cristo è suo Figlio, così noi siamo chiamati suoi figli…. Se chiamiamo Dio Padre, dobbiamo anche vivere come suoi figli, affinché come noi ci rallegriamo di averlo per Padre, così lui si compiace di averci per figli. Per S. Agostino la grazia che c’è nel capo arriva, trabocca verso il corpo. Assunti nel Figlio, siamo anche noi figli.

3. La dottrina teologica

esame?

1) Disegno divino d’adozione. Da tutta la vita siamo stati predestinati alla condizione del figlio di Dio secondo l’affermazione di S. Paolo in Rm 8,29: “poiché quelli che lui da sempre ha conosciuto ha anche predestinati ad essere conforme all’immagine suo perché egli sia primogenito fra molti fratelli”. Ef 1,4-6: “In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, [5]predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, [6]secondo il beneplacito della sua volontà. E questo a lode e gloria della sua grazia, che ci ha dato nel suo Figlio diletto”. Dio introduce la creatura umana all’interno della sua vita intratrinitaria, entra a far parte della vita famigliare. Ef 2,19: “Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio”. Ciò che chiamiamo elevazione non è altro che adozione filiale. La filiazione divina è la condizione della Creatura nuova in Cristo chiamata alla comunione con la Trinità.

2) L’adozione filiale è opera di tutta la Trinità. La filiazione è operazione ad extra della Trinità, operazione comune a tutte le persone divine. È operazione particolare perché consiste nel mettere ad intra. La peculiarità della adozione divina sarebbe che nel suo principio è azione comune trinitaria, ma nel suo termine colloca la creatura in una relazione differenziata con ognuna delle tre Persone. S. Tommaso nella III pars q. 23 art. 2: segnala che l’adozione pur essendo comune a tutta la Trinità, si appropria al Padre come adottante, al Figlio come modello e allo SS come chi imprime in noi l’immagine del modello.

3) La filiazione divina è partecipazione alla filiazione naturale del Verbo. In senso pieno la filiazione divina è unica nella divinità: la filiazione del Figlio, del Verbo, ma questa filiazione è comunicata in maniera gratuita alla persona umana. Per S. Tommaso l’adozione filiale è una somiglianza partecipata della Filiazione naturale del Figlio. Siamo figli nel Figlio, formiamo un solo figlio con Lui. Riceviamo una partecipazione che ci fa figli nel Figlio.

4) La filiazione divina del cristiano è adottiva. Anche se la filiazione divina è una profonda realtà e non metafora, non è la filiazione divina in senso stretto, che significherebbe l’identità con Cristo, significherebbe la seconda Persona. Noi siamo di natura umana, non divina. Abbiamo una filiazione imperfetta, partecipazione alla filiazione naturale del Figlio e tale partecipazione è una sorta di discesa. I cristiani hanno la filiazione, non sono la filiazione (che costituisce la persona del Verbo). La nostra filiazione è inerente in quanto partecipata, e non sussistente come nel caso del Verbo. La filiazione divina adottiva è stato intermedio fra filiazione naturale del Verbo e filiazione umana adottiva. Nell’adozione umana non si può dire che l’adottato non è estraneo alla famiglia adottante, neanche l’adozione umana può trasformare la persona adottata. Invece l’adozione divina ci fa partecipare al modo reale alla natura divina e trasforma realmente il soggetto umano. È una nuova nascita. La nostra adozione divina non consiste in un’atto giuridico da parte da Dio, ma una vera e propria ricreazione, ci si comunica la vita divina in modo limitato. Rimaniamo creature con natura umana elevata, non soppressa. È adottiva, non naturale!

9/3/07

4. Il senso della filiazione divina nell’esperienza spirituale dei santi.

1) L’esperienza dell’Amore divino. L’amore di Dio come le buone madri portano ai loro figli. San Giovanni della Croce: “tanto profonda è l’umiltà e la dolcezza di Dio! È così, come la madre nel servire e nell’accarezzare il suo bambino, allattandolo al suo seno”.

2) Abbandono filiale nelle mani di Dio. Santa Teresa di Gesù Bambino esprime il suo abbandono filiale nelle mani di Dio nel concetto di “infanzia spirituale” o “piccola via”, che è coscienza dell’azione amorosa di Dio e nel contempo coscienza della propria nullità. San Josemaria Escriva incoraggiava a vivere l’abbandono filiale: “abbandonandovi, non avrete di che preoccuparvi, giacché riposerete nel Padre”.

3) Filiazione divina, problema del male e mistero della Croce. I santi non cercano di un equilibro tra l’esperienza del male nel mondo con la certezza della fede nell’infinita bontà divina, perché il male non esiste in Dio stesso. San Tommaso Moro a sua figlia Margaret:“ Niente avviene che non sia la volontà di Dio. Qualunque cosa accadrà sarà sempre infatti il meglio”.

4) La filiazione divina e gioia. Per S. Josemaria Escriva, la gioia è conseguenza della filiazione divina, del saperci amati con predilezione da nostro Padre, che ci accoglie, aiuta e perdona.

5) Esperienza della misericordia paterna di Dio. Dio è mio Padre che mi ama moltissimo e perciò mi perdona sempre. Nell’amore paterno di Dio c’è posto per tutti incluso un grande peccatore. Una misericordia preveniente di Dio, anche se un cristiano non avesse coscienza di aver commesso dei peccati gravi, Dio lo ama molto perché gli ha perdonato molto.

6) Paternità di Dio e maternità di Maria. I santi hanno sottolineato il rapporto stretto fra la paternità divina e la maternità mariana. San Luigi Maria Grignion de Montfort: “Dio Padre ha dato al mondo il suo unico Figlio soltanto per mezzo di Maria”, il Figlio di Dio si è fatto uomo per la nostra salvezza, ma in Maria e per mezzo di Maria.

14/3/07

Cap. 6. Santità e Identificazione con Cristo

Divisione del capitolo:

1. Cristocentrismo della vita spirituale.

2. Gesù Cristo, Via, Verità eVita, fonte e modello della santità.

3. Sequela Christi e imitazione di Cristo negli scritti neotestamentari.

4. Sequela Christi e imitazione di Cristo nella storia della spiritualità.

5. La devozione e il culto al Sacro Cuore di Gesù.

1. Cristocentrismo della vita spirituale

Il cristocentrismo come termine si è cominciato ad adoperare nel ventesimo secolo. Significa che Cristo occupa il luogo centrale nella salvezza del mondo. L’idea è stata espressa nel Redemptor hominis n.1. In teologia spirituale significa che il centro stesso della vita spirituale sta nel seguire, imitare ed identificarsi con Cristo. Questo fatto costituisce il cristocentrismo spirituale- la vita cristiana è costituita da un rapporto di fede e amore con Cristo. Conviene star attenti ai vecchi libri di spiritualità che parlano della devozione con Cristo come se fosse una devozione in più. Egli stesso è la sostanza.

2. Gesù Cristo Via, verità e vita, fonte e modello della santità

Lo stesso Gesù ha sintetizzato il cristocentrismo con le parole di Gv. 14,6: “io sono la via la verità e la vita, nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”.

Gesù Cristo è l’unica via per andare al Padre perché è unico mediatore fra Dio e gli uomini. 1 Tm 2,5-6: “Uno infatti è Dio, e uno solo è il mediatore fra Cristo e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù”. At 4,12: “fuori di lui non c’è salvezza”. Nell’economia salvifica ogni grazia è grazia di Cristo (gratia Christi). Gesù ha adoperato un’immagine per cui Gv 15,5: “Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla”.

Gesù Cristo Verità. “L’unigenito del Padre pieno di grazia e di verità è venuto al mondo per rendere testimonianza alla verità” Gv 18,37. Conoscere la verità è conoscere Gesù, unica conoscenza capace di liberare l’uomo. Gv. 8,31: “Se rimanete fedeli, sarete i miei discepoli, conoscerete la libertà e la libertà vi farà liberi”. Gesù è la sapienza increata, la pienezza della Rivelazione, la parola perfetta e definitiva del Padre: Egli porta a compimento la rivelazione con la sua vita, opere, parole, in modo speciale col suo Mistero pasquale, e poi con l’invio dello Spirito di Verità. Cristo praticò ciò che insegnava e viceversa; la sua vita e la sua dottrina costituiscono un tutto armonico ed unitario. È il modello e prototipo di ogni santità.

Vita” ricorre 37 volte nel Vangelo di Giovanni e 13 nelle Lettere. Gesù viene presentato come modello di Vita. 1 Gv 1,1: “Ciò che abbiamo, visto, udito, toccato, ossia il Verbo della vita”; Prologo: “lui era la vita e la vita era la luce degli uomini”. Questa vita Gesù ha ricevuto dal Padre Gv 5,26 “Come infatti il Padre ha la vita in se stesso, così ha concesso al Figlio di avere la vita in se stesso;”. Egli si è fatto uomo per comunicare questa vita anche a noi Gv 10,10: “Sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza”. Questo influsso vitale si realizza attraverso i sacramenti, il cui centro è l’eucaristia Gv 6,54-58: “Chi mangia la mia carne e beve la mia carne ha la vita eterna”. Oltre i sacramenti, Gesù comunica la sua vita a coloro che ascoltano la sua parola Gv 10,27-28: “Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. [28]Io do loro la vita eterna e non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano”. La risposta umana a Gesù è la fede e perciò dice S. Paolo in Ef 3,17: “Cristo abita mediante la fede in noi”. La nostra identificazione con Cristo passa necessariamente attraverso la vita sacramentale e la vita di preghiera. Senza non c’è identificazione possibile con Cristo.

3. Sequela Christi e l’immitazione di Cristo nei scritti del NT

La prima realizzazione storica del cristocentrismo spirituale consiste nella sequela Christi dei discepoli del Signore.

A. I sinottici

Il senso originario del senso seguire sta a designare il fatto di andare dietro, come facevano i discepoli dei rabbini al tempo di Gesù. Gesù appariva agli occhi della gente come un capo di una scuola, adotta l’istituzione del discepolato rabbinico. Egli sceglie i dodici e gli chiede di seguire fisicamente Gesù. Mc 3,13-15: “chiamò a sé quelli che egli volle ed essi andarono da lui. [14]Ne costituì Dodici che stessero con lui [15]e anche per mandarli a predicare e perché avessero il potere di scacciare i demòni.” Gesù sceglie dodici per farli partecipare alla sua opera messianica. Seguire Cristo è mettersi al servizio del regno di Dio. Gesù mette anche delle condizioni per compiere gli atti dei discepoli: distacco dalla famiglia Lc 14,26; portare la croce vv. 27; essere pronto a rinunciare la propria vita Mt 10,39 e il distacco dai beni materiali Lc 14,33. Nei sinottici seguire esprime il rapporto dei dodici con Gesù nella sua cità terrena.

Lc 14,26-27: “Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. [27]Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo”.

Lc 14,33: Così chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo.

Mt 10,39: Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà.

B. Giovanni

In Gv c’è un allargamento del senso dell’essere discepolo. Passa a significare d’essere cristiano in base a due idee. Per Gv. la fede è il fattore decisivo per la condizione del discepolo. Gv 6,66-69: “Alcuni se ne andarono perché non potevano seguire il discorso, poi Gesù chiede ai discepoli se volessero andare ma Pietro rispose: “noi sappiamo che tu sei il Santo di Dio”. Con questa premessa la comunione terrena di Gesù passa ad un altro piano. Discepolo adesso è chi ha la fede, è il cristiano. Dopo l’ascensione i discepoli saranno tutti coloro che rimarranno nella sua parola Gv 8,31: “«Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli”. Porta all’identificazione fra discepolo e cristiano in quanto membro della Chiesa di Cristo.

C. La Chiesa primitiva.

Vediamo negli Atti come i battezzati ricevono il nome di discepoli fedeli, credenti, e posteriori vengono chiamati cristiani At 11,26 “Ad antiochia per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani”. I discepoli che vennero dopo la risurrezione come apostoli o dodici; si distingue fra discepoli e apostoli o dodici (che seguivano Gesù da vicino). Seguire Gesù sta dopo la risurrezione a indicare l’atteggiamento morale d’imitazione.

D. S. Paolo

Non adopera il verbo “seguire” per parlare della vocazione cristiana. Esprime questo concetto con il termine di “imitazione” di Gesù. Per l’apostolo l’imitazione di Cristo non è estrinseco, che si muove sul livello di fare, etico, ma fonde le sue radici sull’ambito di essere, il suo punto di partenza si è verificata nel battesimo.

Troviamo 165 volte frasi come: in Cristo, nel Signore, in Lui, che stanno a significare la misteriosa comunione di vita con Lui. Vivere in cristo significa essere sotto l’influsso vitale di Cristo glorioso. Uno è cristiano nella misura in cui vive in Cristo, attinge la sua forza da lui. Per parlare della vita futura Paolo adopera: “con Cristo”. Rm 6,8: “Se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui”. Vivere con Cristo è vivere la beatitudine con lui, la vita eterna.

Per S. Paolo vivere con Cristo è qualcosa reale, oggi come venti secoli fa, giacché Cristo è vivo, possiamo essere uniti a lui per mezzo dello SS.

16/3/07

4. Sequela Christi e imitazione di Cristo nella storia della spiritualità.

Si tratta di vedere alcune realizzazioni storiche che mettono in rilievo il cristocentrismo spirituale:

A. La spiritualità del martirio:

Per i primi cristiani l’appartenenza alla Chiesa, comportava una minacci per la propria vita e questo diede forma ad una spirituali in cui il martirio costituiva l’ideale della perfezione cristiana. In tale modo il martire divenne il prototipo della vita cristiana, l’imitazione compiuta di Cristo. Esempio: lettere di S. Ignazio; S. Policarpo.

Oggi il rischio sarebbe collocare il martirio come un estremo, come un pezzo del passato, una cosa lontana dalla nostra esperienza della fede. Negli ultimi decenni la teologia ha cominciato a reagire, ha cercato di mostrare che il martirio non è marginale ma appartiene all’essenza del cristianesimo. C’è la richiesta della teologia fondamentale a prolungare il concetto di martirio. È anche soffrire per cause della carità (ad. es. Massimilliano Kolbe è stato beatificato, ma non come martire, invece Giovanni Paolo II lo mise nell’elenco dei martiri; non è morto in odio della fede, ma è stato martire per la sua carità). Il ricorso del martirio come elemento importante per il dialogo ecumenico. La considerazione del ventesimo secolo come secolo dei martiri. I ripetuti riferimenti del martirio nei documenti di GP II. Da punto di vista storico i martiri sono i primi cristiani ad essere canonizzati, a ricevere culto. I santi sono in un certo senso i successori dei martiri. Se la santità rimanda al martirio come prima manifestazione, non si deve vedere come anedottico. La primeggiatura del martirio come segno di santità, implica non solo che ogni martire è santo, ma che ogni santo è martire. I processi di santificazione mostrano che la loro vita è piena di sofferenza.

Lc 9,23-24: “[23]Poi, a tutti, diceva: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. [24]Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà.

Il CVII. La prima volta che parla del martirio è LG c. 5 quando parla della chiamata universale alla santità.

LG 42: “Perciò il martirio, col quale il discepolo è reso simile al suo maestro che liberamente accetta la morte per la salute del mondo, e col quale diventa simile a lui nella effusione del sangue, è stimato dalla Chiesa come dono insigne e suprema prova di carità. Ché se a pochi è concesso, tutti però devono essere pronti a confessare Cristo davanti agli uomini e a seguirlo sulla via della croce durante le persecuzioni, che non mancano mai alla Chiesa.”

Tutti devono a confessare la loro fede davanti al mondo che significa la testimonianza, e anche dare la vita se c’è il bisogno. Oggi c’è un’altra persecuzione diversa, nascosta e più efficace. È la persecuzione che fa zittire la coscienza, far sparire la verità dall’orizzonte del comportamento, condotta. Il benessere, lucro, piacere, l’egoismo distruttore della famiglia e della vita, mettono il cristiano coerente in una situazione di dover procedere contro corrente e perfino alcuni, pervasi da questo attacco, che cercano di essere coerenti con la propria fede, difendersi, e poi questi stessi molte volte sono visti dai fratelli di fede come fondamentalisti. Oggi c’è un ambiente che invita all’orizzontalità, da cui si scappa innalzando la croce. È un tipo di martirio spirituale e quotidiano. VS 43: “di fronte alle molteplice difficoltà, e le circostanza … il cristiano è chiamato con la grazia di Dio ad un impegno eroico, sostenuto dalla virtù…???”.

B. Il cristocentrismo nella Tradizione patristica e medioevale.

Nella patristica: per l’occidente (di S. Ambrogio) e per l’oriente (S. Giovanni Crisostomo). In S. Ambrogio il cristocentrismo della vita spirituale si può riassumere in questa frase: “la vita è stare con Cristo, perché dove c’è Cristo, là c’è il regno”. Per S. Giovanni Crisostomo: “la santità consiste nel rivestire Cristo, indossarlo”. Riprende l’espressione paolina.

Per quanto riguarda il medioevo, la pietà si orienta verso l’umanità santissima di Cristo, verso i ministri della sua vita.

S. Bernardo di Chiarevalle (1153) ha sottolineato: “se Cristo è il Mediatore, allora i misteri della sua vita sono i mezzi per tornare a Dio”. Nell’umanità del Verbo incarnato l’uomo trova la sua forma, il suo modello.

Questa pietà cristocentrica continua nel XIII sec. con s. Francesco di Assisi: la sequela Christi è il programma per la sua regola.

S. Tommaso d’Acquino contempla Cristo sulla croce come esempio di tutte le virtù. Finalmente, l’opera della devotio moderna abbia come motivo L’imitazione di Cristo (del 1441).

C. La pietà cristocentrica nell’epoca moderna e contemporanea.

Per S. Ignazio di Lojola (1556), la sequela Cristi si traduce in servizio concreto al corpo di Cristo che è la Chiesa. Scrisse gli esercizi spirituali, che sono una sorte di percorrere i misteri della vita di Cristo imitandoli, per così trovare la propria strada di servizio alla Chiesa.

S. Teresa di Gesù (1582) l’umanità santissima di Cristo è l’unico percorso per tutte le tappe della vita spirituale.

S. Alfonso Maria de’Liguori: il culto del Verbo incarnato deve essere il cuore dell’imitazione di Cristo. voleva la contemplazione quotidiano di Cristo.

Nel XX. secolo Charles de Foucauld (1916): la imitazione di Cristo è imitazione della sua vita nascosta a Nazaret, connessa ad una ininterrotta adorazione dell’Eucaristia.

Beato Columbia Marmion (1923) è un esponente della spiritualità cristocentrica. Libri:“Cristo nella vita dell’anima”; “Cristo, l’ideale del sacerdote”, “Cristo, l’ideale del monaco”.

S. Josemaria Escriva- per lui un processo di santificazione è un processo di cristificazione, si deve diventare un altro Cristo, lo stesso Cristo. Forgia 10: “Chi più assomiglia Cristo, più è cristiano, più Cristo, più santo”.

Distinzione tra sequela e imitazione. Lutero non apprezzava l’idea dell’imitazione giacché gli sembrava una sorte di pelagianesimo nascosto (non gli sembrava che fosse gratuito la giustificazione nel cattolicesimo). Alcuni autori anche cattolici seguono questa linea e preferiscono parlare di sequela perché più vicina a Cristo: seguimi, è più evangelica, ha un contenuto dinamico di seguire un cammino, il proprio della vita cristiana, ma l’impiego dell’altro è valido. Il termine imitazione fu usata da S. Paolo e fissato anche prima dai vangeli.

5. Imitazione e Croce. Santità e apostolato:

(non c’è nella dispensa)

Imitazione e croce: l’apostolo Paolo quando invita i filippesi ad avere gli stessi sentimenti che furono in Cristo, sceglie una sola virtù: “l’umiltà” Fil 2,5-11 “Pur essendo di natura divina non considerò come tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo…”. Questa centralità giacché l’imitazione di Cristo comincia con la sofferenza, è l’imitazione del mistero pasquale. Questa morte e risurrezione lo troviamo nel Battesimo: vivere il mistero pasquale di Cristo: accade all’inizio della vita cristiana e accade alla fine, perciò deve essere presente in tutta la vita.

La croce costituisce l’oggetto principale dell’imitazione dei discepoli, la condizione per partecipare alla gloria della risurrezione. Essa costituisce la vera prova dell’imitazione di Cristo (se c’è umiltà e croce c’è imitazione di Cristo).

Santità e apostolato. Se la santità è identificazione con Cristo, non si deve perdere di vista che in Cristo incarnazione e missione sono inseparabili. L’essere e l’agire vanno insieme. L’incarnazione si è fatta con lo scopo concreto: la salvezza. La comunione con il Cristo dei cristiani è una comunione che cerca di aumentare, spinge ad esprimere agli altri l’amore ricevuto. Chi ha trovato Cristo non lo può tenere per sé. Questa realtà deve permeare la vita del cristiano, ogni cristiano ha in se la responsabilità di far conoscere Cristo. La vita cristiana è necessariamente una vita apostolica.

Cap. 7. Vita Secondo lo Spirito

Lo Spirito Santo autore della nostra santificazione.

5. Punti:

1. Il dono dello SS

2. Gesù Cristo e lo SS

3. Vita secondo la carne e vita secondo lo Spirito in S. Paolo

4. Doni dello SS

5. La docilità allo SS ed i carismi

1. Il dono dello SS

Lo SS è il dono salvifico per eccellenza fatto a coloro che credono in Cristo. Gv 4,10: “Gesù le rispose: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: "Dammi da bere!", tu stessa gliene avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva»”. Promesso nell’ultima cena Gv 14,16: “pregherò il Padre, ed egli vi darà un altro consolatore ed egli rimarrà con voi per sempre”. All’inizio della predicazione apostolica S. Pietro promette il dono dello SS a coloro che si convertiranno At 2,38: “pentitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare, dopo riceverete il dono dello SS”. È elargito ai pagani che abbracciano la fede At 10,45: “E i fedeli circoncisi, che erano venuti con Pietro, si meravigliavano che anche sopra i pagani si effondesse il dono dello Spirito Santo”. L’apostolo Paolo adopera numerose espressioni utilizzando verbi come: riversare, riempire, dare, conferire, che hanno sempre come complemento oggetto lo SS, oppure sostantivi come dono, pegno, primizie, sigillo.

La finalità di questo dono è l’attività propria della vita cristiana, in particolare la carità. Lo SS conferisce una nuova vita, quella di Cristo che trasforma le vecchie abitudini come segnalò il profeta Ezechiele 17,14: “Si è scelto uno di stirpe reale e ha fatto un patto con lui, obbligandolo con giuramento. Ha deportato i potenti del paese, [14]perché il regno fosse debole e non potesse innalzarsi ed egli osservasse e mantenesse l'alleanza con lui.”.

S. Paolo è il primo autore ad attribuire in modo diretto lo SS a Gesù; Gal 4,6: “Che voi siete figli è il fatto che il Padre ha mandato a voi lo SS che grida Abba Padre”. Lo SS è lo Spirito di Cristo. È lo stesso Cristo nel cristiano che vive e opera tramite lo Spirito di Dio. Uno Spirito vivificante e santificatore che risuscita il corpo di Cristo, è datore di vita. S. Paolo attribuisce all’azione dello Spirito un’efficacia che trasforma radicalmente la persona. 2 Cor 5,17: “Se uno è in Cristo, è una nuova creatura, le cose vecchie sono passate, e sono nate le nuove”. Con lo SS ci viene comunicato quel eterno amore reciproco tra il Padre e Figlio: questo loro essere in comunione è quello che ci si comunica. Il ruolo dello SS copre l’infinita distanza che c’è tra l’uomo e Dio, diventando così Dio in noi. “La grazia del Signore nostro Gesù Cristo, l’amore di Dio Padre e la comunione dello SS siano con tutti voi”.

2. Gesù Cristo e lo SS

Il dono dello SS è stato largito all’umanità in un duplice momento:

1. A Gesù nell’istante dell’incarnazione.

2. Dopo la sua morte e assunzione lo SS è stato dato a tutti i credenti.

Gesù Cristo possiede lo Spirito. In Gesù si compiano le promesse pneumatologiche di Is 11,1-2: “su di lui si poserà lo Spirito del Signore, spirito di sapienza e di intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e di timore del Signore.” Is 61,1: “Lo Spirito del Signore Dio è su di me perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione, mi ha mandato a portare il lieto annunzio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri,”. Fin dall’inizio della sua vita terrena, Gesù è unto dallo SS. Nel battesimo la potenza dello SS si manifesta apertamente. Il primo atto dello SS dopo il battesimo è condurre Gesù nel deserto per combattere il diavolo. Poi lo SS si manifesterà nella vita pubblica di Gesù come forza liberatrice dalle forze del male. Ci sono molti guarigioni. Lo Spirito manifesta la sua forza come in Rm 8,11: “E se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi.” Gesù crocifisso è risorto e lo risuscita il suo Spirito. S. Giovanni identifica i fiumi di acqua viva con lo Spirito. Gesù è sorgente dell’acqua viva perché è fonte dello Spirito. Gesù dal depositario passivo dello Spirito, passa ad essere il suo dispensatore attivo. L’ora di Gesù è quella ora in cui Gesù morendo trasmette lo Spirito Gv 19,30: “E dopo aver ricevuto l'aceto, Gesù disse: «Tutto è compiuto!». E, chinato il capo, spirò.”. Significa dare al Padre mediante la morte il soffio che aveva ricevuto. Teologicamente indica il dono dello Spirito ai credenti. Dopo la sua risurrezione, Gesù si rivolge ai undici: “Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: «Ricevete lo Spirito Santo; [23]a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi»” Gv 20,23. Tutto si conclude con il dono dello Spirito nella Pentecoste.

3. Vita secondo la carne e vita secondo lo Spirito negli insegnamenti paolini.

L’uomo nuovo rigenerato e vivificato deve vivere una vita nuova.

Rm 8,5-9: “[5]Quelli infatti che vivono secondo la carne, pensano alle cose della carne; quelli invece che vivono secondo lo Spirito, alle cose dello Spirito. [6]Ma i desideri della carne portano alla morte, mentre i desideri dello Spirito portano alla vita e alla pace. [7]Infatti i desideri della carne sono in rivolta contro Dio, perché non si sottomettono alla sua legge e neanche lo potrebbero. [8]Quelli che vivono secondo la carne non possono piacere a Dio.

[9]Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene”.

In Paolo “sarx” è adoperato 91 volte. In maggior dei casi in un senso etico peggiorativo. In Paolo non troviamo un dualismo ontologico di tipo platonico secondo il quale la carne appartenendo al mondo materiale sarebbe intrinsecamente cattiva oppure fonte di corruzione dell’anima. Ef 5,29: “Nessuno mai infatti ha presso in odio la propria carne”. Il dualismo paolino è di tipo etico. Per S. Paolo il termine carne indica la natura umana che si è ribellata contro Dio. Con l’espressione “opere di carne” in Gal 5,19-21: “[19]Del resto le opere della carne sono ben note: fornicazione, impurità, libertinaggio, [20]idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, [21]invidie, ubriachezze, orge e cose del genere;”. S. Paolo non intende soltanto peccati sessuali, o in generale quelli materiali o corporali, ma in tale espressione ingloba anche altri peccati che entrano più o meno nel campo dello Spirito. Sarebbe bene ricorrere al concetto di “egoismo”, incarnato e inveterato; incarnato, in quanto prende tutto l’uomo nella suo totalità psico-fisica.

S. Paolo non chiamerà carne il corpo risuscitato, lo chiama invece corpo spirituale. S. Paolo contrappone il frutto dello SS Gal 5,22: Amore, gioia pace, bontà, fedeltà mitezza, dominio di sé.

Gal 6,7-8: Non vi fate illusioni; non ci si può prendere gioco di Dio. Ciascuno raccoglierà quello che avrà seminato. [8]Chi semina nella sua carne, dalla carne raccoglierà corruzione; chi semina nello Spirito, dallo Spirito raccoglierà vita eterna.

4. I doni dello SS: natura e dinamica.

(non vista nelle lezioni)

Bisogna che le virtù siano integrati con i doni dello SS. I doni sono il lato passivo della vita spirituale, ci fanno docili all’azione della grazia. Per S. Tommaso i doni sono abiti operativi soprannaturali che si ricevono con la grazia.

Doni e virtù hanno in comune 4 cose:

1) Hanno la stessa causa efficiente (Dio).

2) Hanno lo stesso soggetto di inerenza: le facoltà umane.

3) Hanno lo stesso oggetto materiale: tutta la materia morale (la vita morale).

4) Hanno la stessa causa finale: la santificazione umana.

Cose li distinguono?

  1. Si distinguono dal principio motore. Le virtù infuse sono messe in moto dalla ragione illuminata dalla fede. Invece i doni operano soltanto quando lo SS lo vuole.

  2. È diverso il modo d’agire. Nelle virtù il modo d’agire è a modo umano, soggetto imperfezione. Nei doni il modo d’agire è a modo divino.

L’azione dello SS si attua contemporaneamente tramite la virtù e tramite i doni. Le due modalità sono complementari, una più attiva e l’altra è passiva. Virtù e doni costituiscono la struttura della vita cristiana. Non possiamo separarli, né attribuire ai primi la vita ascetica e ai secondi la vita mistica, sono due realtà che agiscono insieme. L’azione dello SS si attua nella vita cristiana tramite le virtù e tramite i doni.

21/3/07

5. La docilità allo Spirito santo e i carismi

A) La docilità allo SS:

Lo Spirito Santo è l’artista che scolpisce nella nostra anima l’immagine di Cristo, se siamo docili alle sue ispirazioni. Egli porta in termine l’opera della nostra santificazione. Uno dei atteggiamenti fondamentali è la docilità allo SS. Per essere docili bisogna ascoltare la sua voce. Per avere la capacità di ascoltare la voce dello SS è necessario rigettare ogni peccato veniale ed avere un raccoglimento interiore. Questo richiede la mortificazione dei sensi. Bisogna avere un’abnegazione della volontà e del giudizio. Dobbiamo avere una conoscenza che siamo fallibili. Significa inoltre frequentarlo, chiedendo ogni giorno la sua luce e la sua forza. Non è sempre facile fare il bene. Conosciuto il bene, la volontà deve aderire, voler fare il bene- e non è detto che lo farà. Una volta la volontà dice bene, non è detto che avremo la forza per portare a compimento ciò che l’intelligenza ci ha mostrato come un bene.

B) La carisma:

Significa letteralmente dimostrazioni di benevolenza. Esprime il risultato di una grazia divina nel senso di un favore, regalo che Dio fa all’uomo. Nel NT la parola compare 16 volte in Paolo e una volta in S. Pietro per significare che l’efficacia della grazia dello SS si diversifica, è diversa, allo scopo di produrre in ogni cristiano una determinata capacità in ordine all’edificazione della comunità ecclesiale. S. Paolo segnala nelle sue lettere 20 carismi diversi, ma non c’è una volontà sistematica di spiegarli. Solo li elenca e indica i criteri per vedere l’autenticità dei carismi. Con il passo di tempo “carisma” diventa sinonimo di “gratia gratis data”, una grazia straordinaria o miracolosa, ma questo non risponde al senso originale paolino. Ci sono carismi ordinari e carismi straordinari (profezia, miracoli). Ci sono carismi che non richiedono un intervento straordinario della potenza di Dio (il celibato). Il CVII nella considerazione della Chiesa gerarchica ha una spiegazione nel LG 12:

Inoltre lo Spirito Santo non si limita a santificare e a guidare il popolo di Dio per mezzo dei sacramenti e dei ministeri, e ad adornarlo di virtù, ma « distribuendo a ciascuno i propri doni come piace a lui » (1 Cor 12,11), dispensa pure tra i fedeli di ogni ordine grazie speciali, con le quali li rende adatti e pronti ad assumersi vari incarichi e uffici utili al rinnovamento e alla maggiore espansione della Chiesa secondo quelle parole: « A ciascuno la manifestazione dello Spirito è data perché torni a comune vantaggio » (1 Cor 12,7).

È una grazia speciale per la rinnovazione della Chiesa. Mettono in moto qualcosa all’interno della stessa Chiesa. Ad es. la carisma dei fondatori (S. Francesco). I santi fondatori sono strumenti per rinnovare la Chiesa. Lo SS invia carismi a seconda dei bisogni del mondo in ogni momento concreto.

Cap VIII. Dimensione ecclesiale della vita spirituale

1. La Chiesa, ambito dell’incontro con Cristo e della comunicazione dello SS.

2. Parola di Dio e vita spirituale.

3. Liturgia e vita spirituale.

4. Lo stile sacramentale della vita spirituale.

5. L’Eucaristia centro e radice della vita spirituale.

1. La Chiesa, ambito dell’incontro con Cristo e della comunicazione dello SS

Si tratta di una dimensione fondamentale nella vita cristiana. Nessuno è cristiano per conto proprio. Si è cristiano nella Chiesa e mediante la Chiesa. La continuità fra la cristologia ed ecclesiologia. Non si possono separare.

Nel NT la vocazione cristiana è vista sempre ad interno del popolo di Dio At 2,28: “Ogni giorno il Signore aggiungeva quelli che erano battezzati alla comunità”. La Chiesa è il luogo dell’incontro con Cristo giacché mediante il battesimo si diventa membro del corpo di Cristo. Se il Cristiano nasce alla vita cristiana nella Chiesa, tramite la Chiesa dovrà raggiungere la sua pienezza. Inoltre, la Chiesa è luogo della comunicazione dello SS. S. Ireneo scriveva: “dove è la Chiesa, ivi è lo Spirito di Dio, dove è lo Spirito di Dio, ivi è le Chiesa”. S. Agostino insegna che ciò che è l’anima per il corpo umano, lo SS lo è per il Corpo di Cristo che è la Chiesa.

Così come Cristo ci ha donato la salvezza tramite l’incarnazione, lo SS si è voluto incarnare tramite la Chiesa. Le istituzioni della Chiesa non sono una semplice creazione di ordine sociale. Queste istituzioni hanno la sua radice nel vincolo spirituale che unisce i cristiani a Cristo. Sono come la prolunga di Cristo nella comunità ecclesiale. Il Concilio insegna che Dio chiama alla santità tramite la mediazione della Chiesa LG 9: “Piacque a Dio di santificare e salvare gli uomini non individualmente, né senza legami tra loro, ma volle costituire un popolo che lo riconoscesse nella verità e santamente lo servisse. Pertanto la santità cristiana è individuale ma non individualistica, e questo è il contenuto essenziale del dogma della comunione dei santi professato nel credo: il bene di ciascuno diventa il bene di tutti e il bene di tutti diventa il bene di ciascuno.

2. Parola di Dio e vita spirituale

La vita spirituale è una vita con Dio. Dio ha stabilito i suoi rapporti attraverso la sua Parola, la sua personale rivelazione. DV 2: “Dio invisibile nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi per inviarli e ammetterli alla comunione con se”. Questo implica che la vita spirituale deve costituirsi sulla base della Parola di Dio e della fede: La Parola con cui Dio chiama l’uomo a sé è la fede con cui l’uomo riconosce e accetta questa chiamata.

2 Tm 3, 14-16: “[14]Tu però rimani saldo in quello che hai imparato e di cui sei convinto, sapendo da chi l'hai appreso [15]e che fin dall'infanzia conosci le sacre Scritture: queste possono istruirti per la salvezza, che si ottiene per mezzo della fede in Cristo Gesù. [16]Tutta la Scrittura infatti è ispirata da Dio e utile per insegnare, convincere, correggere e formare alla giustizia, perché l'uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona”.

Girolamo: “chi non conosce la scrittura, non conosce Cristo”. Allora il cristiano deve cercare nella Bibbia il primo elemento della vita spirituale, ma non si può dimenticare che la Bibbia è la Parola di Dio scritta nella e per la Chiesa. È il libro della Chiesa, e perciò continua ad avere bisogno della Chiesa.

Sacrosantum Concilium 7: “Cristo è presente nella sua Parola, giacché è lui che parla quando nella Chiesa si legge la sacra Scrittura”. Il luogo privilegiato della lettura è la liturgia, soprattutto, nella liturgia eucaristica dove questa proposta della liturgia di Dio si collega alla presenza reale di Cristo. La parola di Dio proclamata diventa viva e vivificante. Viva perché nella liturgia Dio parla al suo popolo, e la parola viene ascoltata come dialogo. Proposta divina e risposta umana che vuole mettere in pratica l’ascoltato. Lo SS dona ai uditori secondo le disposizioni dei loro cuori l’intelligenza spirituale della parola di Dio che si proclama. Nell’assemblea liturgica la presenza dello SS rende la parola vivificante, non solo annuncia e ricorda ma anche agisce. Lo SS indica alla Chiesa come vivere il Vangelo nelle situazioni storiche concrete. Le cose scritte per ieri si capiscono in luce della necessità d’oggi. La potenza salvatrice diventa viva nell’assemblea che lo ascolta, come detto per l’oggi. La liturgia è la mediazione privilegiata tra la Parola di Dio e la vita dell’uomo. La bibbia passa alla vita attraverso la liturgia.

22/3/07

3. Liturgia e vita spirituale.

Il rapporto fra liturgia e TS può essere spiegato così: la liturgia è fonte e culmine della vita spirituale. SC 10 “la liturgia è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa, e la fonte da cui promana tutta la sua energia”.

SC 14 “La liturgia è la prima e fondamentale fonte da cui i fedeli possono attingere del genuino spirito”. La liturgia è mediazione sacramentale della mediazione di Cristo, fonte di ogni santità. La celebrazione liturgica è opera della nostra redenzione, sacramentalmente presente, manifestata ed attuata con verbi e gesti del verbo incarnato, che si fa presente nell’oggi della liturgia. La liturgia manifesta il mistero di Cristo, lo attualizza e lo comunica. Così l’uomo può attingere all’azione di Cristo e della Chiesa mediante l’azione liturgica. Il sacramento del Battesimo è il momento iniziale di comunione con Cristo. La liturgia oltre al fonte è culmine della vita spirituale, porta al compimento il mistero pasquale, l’identificazione con Cristo Gesù. Dalla liturgia, e particolarmente dall’eucaristia deriva la grazia e si ottiene con massima efficacia la santificazione dell’uomo. La vita cristiana è il luogo della grazia, ma è la liturgia dove quella viene espressa come culto, unione con la Chiesa e per mezzo di Cristo.

4. Lo stile sacramentale della vita spirituale

La realizzazione del stile di Cristo si compie attraverso i sacramenti. Per capire il ruolo dei diversi sacramenti nella vita cristiana, conviene non considerarli come sette canali paralleli ma come un solo organismo vitale attraverso il quale ci configuriamo a Cristo. Ogni sacramento manifesta un affetto particolare del mistero di Cristo nelle nostre anime, ci configura con Cristo in modo particolare, diverso dai altri.

I tre sacramenti dell’iniziazione cristiana: Cresima, confermazione, Eucaristia. C’è una mutua dipendenza.

Nel battesimo si significa la morte e risurrezione di Cristo e di noi con Cristo Rm 6,3-4:

O non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? [4]Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova.”

Il battezzato veniva immerso tre volte nell’acqua, ed immergeva acquistando una nuova vita in Cristo. Erano sette gradini per scendere nell’acqua e guardando l’oriente, Cristo glorioso.

La cresima è necessaria giacché non basta morire al peccato per la santità, il nostro agire è ancora troppo terreno, dipendenza del modo umano di vedere le cose, occorre che la nostra guida verso la santità sia Dio stesso. Per questo nella cresima riceviamo la pienezza dello SS, che conferma nella fede e perfeziona le virtù e doni ricevuti nel battesimo.

Nelleucaristia, non solo partecipiamo alla morte, sepoltura e risurrezione ma riceviamo lo stesso Cristo risuscitato. La nostra unione con Cristo diventa piena: diventiamo una sola cosa con Cristo.

Il rapporto è di cammino progressivo e complementare. Nel battesimo c’è una morte dell’uomo vecchio, la cresima significa già quella vita nuova in quanto dipende dalla guida dello SS e l’Eucaristia significa la piena unione con Cristo. Il mistero pasquale di Gesù si compie in noi attraverso tappe dell’iniziazione Cristiana.

Sacramenti di guarigione: penitenza e unzione dei malati. Nella penitenza si verifica una reintegrazione nei poteri e privilegi conferiti dal battesimo e cresima dopo essere stati esclusi per mezzo del peccato mortale. Ci colloca di nuovo alla situazione precedente. Il modo di configurarsi a Cristo è stato espresso da GP II nel Redemptor Hominis 20: “si tratta di un personale incontro dell’uomo con Cristo crocifisso che perdona, che dice ti siano rimessi i tuoi peccati, vai e non peccare più” (Gv 8,11).

Nell’unzione degli infermi il malato riceve la forza per unirsi alla passione di Cristo. Si riceve un senso nuovo. È una partecipazione al opera salvifica di Cristo. L’unzione degli infermi santifica la malattia grave in vista della guarigione se tale è la volontà di Dio e in ogni caso la guarigione escatologica, finale e totale della natura umana il giorno della parousia. L’unzione degli infermi rispecchia il mistero del trionfo della croce. Il sacramento dunque fa partecipe in anticipo il cristiano della vittoria definitiva di Cristo sul peccato e sulla morte.

5. L’Eucaristia

Per parlare del ruolo essenziale che l’Eucaristia svolge nella sua vita spirituale CVII adopera la locuzione “fonte e apice della vita Cristiana. LG 11: “I fedeli partecipano al sacrificio eucaristico, fonte e apice di tutta la vita cristiana, offrono a Dio la vittima divina e se stessi con essa”. “Centro e radice di tutta la vita del presbitero” Presbyterium ordinis 14.

Radice- la radice è l’organo fondamentale delle piante, si addentra nel terreno e non ha funzione solo di sostegno ma di assorbimento degli elementi. La pianta potrà vivere e crescere con vigore se la sua radice sarà pronta a ricavare il nutrimento sufficiente. La radice è condizione di vita e crescita della pianta. Il fondamento teologico che permette di parlare dell’eucaristia è ciò che i teologi hanno denominato il realismo eucaristico con una doppia dimensione: la presenza reale di Cristo sotto le specie consacrate (realismo sacramentale cristologico) e il realismo sacramentale soteriologico (la comunicazione reale della vita di Cristo alla sua Chiesa e ai cristiani). Quest’ultima sottolinea che nella celebrazione eucaristica si opera l’evento della nostra redenzione: ogni volta che il sacrificio viene celebrato sull’altare si effettua l’opera della nostra redenzione. La messa comunica e rende presente il sacramento della redenzione. Essa applica in atto il frutto del sacrificio della croce. Nei protestanti c’è solo un’evocazione, evoca il futuro, ma non ha luogo una comunicazione della grazia. La dottrina cattolica sostiene che nel sacrificio Cristo si fa presente in mezzo al popolo convocato, per santificarlo e attrarlo a sé.

La santa messa, centro della vita spirituale

Perché l’Eucaristia come radice vivifica il nucleo dell’essere cristiano, può impulsare e vivificare l’intera esistenza del fedele, facendo si che possa girare intorno al sacrificio eucaristico, vero centro della vita spirituale. Centro significa che deve costituire il punto di riferimento di tutti i pensieri, desideri, affetti, e azioni del cristiano e si sottolinea il fatto che la messa non si può ridurre a un momento isolato in mezzo all’intera giornata. Si deve trasformare l’intera giornata in un atto di culto, che comincia con il battesimo, dove ogni fedele viene trasformato in Cristo sacerdote, così che può rendere un culto spirituale: il sacerdozio comune dei fedeli.

Gesù che passa 96: “noi tutti con il battesimo siamo costituiti sacerdoti della nostra stessa esistenza, per offrire vittime spirituali, ben accette a Dio per mezzo di Gesù Cristo per compiere ciascuna delle nostre azioni in spirito di obbedienza alla volontà di Dio, perpetuando la missione dell’Uomo- Dio”.

Il sacerdozio ministeriale è al servizio del sacerdozio comune. Tramite l’ordine si partecipa al sacerdozio di Cristo in modo diverso, come capi. Ogni fedele deve esercitare il suo sacerdozio comune offrendo un culto spirituale mediante il dono a Dio della propria vita, mettendo al servizio a Dio tutto il suo essere e agire, in unione intima con l’offerta totale di Gesù nella Santa messa. L’altare dove si esercita questo sacerdozio è il proprio cuore e tutte le realtà umane nobili che vanno santificate e offerte a Dio come il lavoro quotidiano, la vita familiare, i rapporti professionali, sociali, ecc.

Cap 9: Dimensione mariana della vita dei discepoli di Gesù

Vogliamo mostrare l’importanza di questo elemento essenziale della vita cristiana. La dottrina sulla fede mariana deve diventare vita di fede. Il rapporto filiale di ogni fedele con Maria non è un optional della vita spirituale, ma una dimensione intrinseca e fondamentale. Il fondamento dogmatico sta nel fatto che Gesù associò intimamente la Vergine a tutta la sua missione santificatrice e di conseguenza Maria è nostra madre nell’ordine della grazia ed esercita una mediazione materna LG cap. 8 n. 60-69. La dimensione mariana è anche denominata spiritualità mariana in senso largo e generico. C’è un senso stretto quando una specifica spiritualità sottolinea una realtà comune presente nella vita della Chiesa (ad es. Luigi Maria Monfort).

1. Maria ideale tipo di vita spirituale

In Maria si compie la sintesi di ogni vita spirituale. Il dono che ha ricevuto d’essere piena di grazia forma la santità ontologica. Poi la sua esemplare risposta alla vocazione, che la fa un modello di risposta alla grazia forma la sua santità morale oppure etica. In lei si fondano questi due elementi in una sintesi perfetta, modello della corrispondenza alla grazia. Da punto di vista della santità ontologica, in lei si verifica ciò che è la vita spirituale: vita di Cristo e nello SS. È stata la prima persona a partecipare al mistero di Cristo in senso cronologico ed essere la prima discepola del suo figlio, la prima al quale lui dice: “seguimi” Redemptoris Mater. Lo è anche in senso qualitativo-intensivo giacché è stata collei che più profondamente ha partecipato al mistero pasquale di Gesù.

Per quanto riguarda la vita nello Spirito, lei è la piena di grazie, è la sintesi di una vita nello Spirito. Concepì il Verbo per opera dello SS. Quando la potenza dello SS agisce nella Pentecoste, lei fu presente.

Lei è modello di corrispondenza alla grazia, di dialogo essenziale tra dialogo divino e libertà umana. La vita di Maria diventò un continuo crescere nella fede, speranza e carità. Insegna l’esigenza della fede, la fatica- insegna la fedeltà alla risposta.

2. Atteggiamenti fondamentali del cristiano nei confronti della Madonna.

Se la Madonna offre nella vita la sintesi e modello della vita cristiana, allora il fedele deve realizzare nella propria vita questa risposta di Maria al disegno divino. Deve guardare lei per avere la docilità con cui lei ha risposto e collaborato con quel lavoro divino. Questo è caratterizzato dai seguenti atteggiamenti:

  1. Contemplazione del mistero di Maria. A partire dalla scrittura e magistero. La vita spirituale di Maria illumina il nostro cammino di fede e la nostra risposta.

  2. Imitazione. Se Maria è la prima discepola di Cristo ogni credente deve imitarla. Costituisce il punto di riferimento necessario per seguire pienamente Gesù.

  3. La comunione con Maria. Significa stabilire un rapporto filiale perché è nostra madre nella vita della grazia. LG 61: “Ha cooperato in modo speciale alla opera del salvatore con la fede, speranza e fedeltà per restaurare la vita soprannaturale delle anime. Per questo ella è diventata per noi madre nell'ordine della grazia”. Un rapporto filiale non con un personaggio del passato, ma un rapporto con una persona presente, glorificata con Cristo, vicina a noi. Tale comunione del cristiano con Maria permette a Maria di plasmare in noi i sentimenti di Cristo tramite un atteggiamento materno che ci trasfigura in immagine di Cristo.

3. Culto a Maria.

In LG 66 il CVII insegna che Maria, Madre di Dio, per grazia di Dio, esaltata al di sotto del Figlio, al di sopra di tutti gli angeli e uomini, viene onorata dalla Chiesa con culto speciale. Si tratti di un culto singolare che è diverso essenzialmente dal culto d’adorazione preso il Verbo incarnato, Padre e SS. Poi la vita di grandi innamorati di Maria è la testimonianza che il culto di Maria è il modo migliore per aderire a Cristo. Il Concilio esorta tutti i figli della Chiesa a promuovere generosamente il culto, specialmente liturgico, verso la beata Vergine, ad avere in grande stima le pratiche e gli esercizi di pietà vero di lei, raccomandati lungo i secoli dal Magistero della Chiesa. Alcune preghiere eucaristiche la contengano, poi numerosissime messe, il rosario, angelus.

Cpt. 10 Dimensione secolare della vita cristiana

  1. Diversi significati del termine “mondo”

  2. Insegnamenti biblici sul mondo

  3. L’amore cristiano per il mondo

  4. Nozione di secolarità cristiana (dimensione secolare del esistenza del mondo)

  5. Insegnamenti del CVII sulla vita spirituale dei fedeli laici

1. Diversi significati del termine “mondo”

Importante x l’esame

Il termine “mondo” ha diversi significati. Dal punto di vista naturale riscontriamo tre significati:

  1. Nel senso cosmico il mondo sarebbe il cosmo. Tutte le cose esistenti fuori da Dio.

  2. Nel senso cosmologico sarebbe tutta la natura creata facendo eccezione dell’uomo. Tutto ciò che non è Dio e l’uomo.

  3. Senso sociologico, storico, culturale esprime un ambito concreto, un settore della società, storia o cultura. Il mondo del “lavoro”, sport…

Significati cristiani. Troviamo altri tre significati:

  1. Senso soteriologico. Il mondo sarebbe la realtà colpita dal peccato e bisognosa della redenzione cristiana.

  2. Senso ascetico. Si esprime l’occasione del peccato in quanto nemico dell’anima. Sarebbe la mondanità.

  3. Senso ecclesiologico: l’insieme dei ambiti secolari e profani in cui vive l’uomo diversi dalle realtà esterne della Chiesa e delle realtà ecclesiastiche.

2. Insegnamenti biblici sul mondo

Non esiste una parola specifica per designare il mondo: si usa l’espressione “cielo e la terra”. In greco, nei libri dell’AT troviamo qualche volta il sostantivo “cosmos”. Gli autori usano poi anche l’espressione: cielo e terra. Negli Atti 17,24: si usano entrambe le espressioni.

Il mondo è stato creato da Dio, che implica l’assoluta trascendenza di Dio che esclude ogni visione panteistica del mondo. Il mondo non è Dio! La materia non è intrinsecamente cattiva, né si oppone allo spirito.

Il carattere drammatico del mondo. Quella armonia originaria del mondo fu interrotta dal peccato originale in modo che il mondo è stato sottomesso alle conseguenze del peccato, che si rivela come la vera causa di ogni male (cfr. Rm 8,18-23: La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio…).

Il mondo è sottomesso al giudizio di Dio. Nella bibbia, l’espressione “giudizio di Dio” è peggiorativa, significa una presunzione di colpevolezza. Si tratta del mondo che non ha voluto riconoscere Cristo e quindi si è opposto a Dio stesso.

Il mondo è anche sotto la promessa. L’amore di Dio è più forte del peccato. Lui ha promesso la salvezza del mondo e ha inviato il suo Figlio al mondo per salvarlo, non condannarlo.

La situazione dei cristiani nel mondo è stato riassunta nella preghiera sacerdotale di Gesù nell’ultima cena.

Gv 17,11-16: “[11]Io non sono più nel mondo; essi invece sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato, perché siano una cosa sola, come noi.

[12]Quand'ero con loro, io conservavo nel tuo nome coloro che mi hai dato e li ho custoditi; nessuno di loro è andato perduto, tranne il figlio della perdizione, perché si adempisse la Scrittura. [13]Ma ora io vengo a te e dico queste cose mentre sono ancora nel mondo, perché abbiano in se stessi la pienezza della mia gioia. [14]Io ho dato a loro la tua parola e il mondo li ha odiati perché essi non sono del mondo, come io non sono del mondo.

[15]Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal maligno. [16]Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo.”.

Il cristiano unito con Cristo nella fede e carità non è del mondo perché vive la nuova vita in Cristo. Il cristiano non appartiene più alla fase superata della storia: il mondo del peccato, ma si trova ancora nel mondo- soffrendo gli attacchi del demonio e al contempo testimoniando che Cristo è morto e risuscitato per la salvezza degli uomini e così vince il mondo con la fede. “Tutto ciò che è nato da Dio vince il mondo, e questa è la vittoria che ha sconfitto il mondo, la nostra fede” (1Gv 5,4-5).


3. L’amore cristiano per il mondo

Peccato: “Aversio a Deo, conversio ad creaturas” (S. Agostino & S. Tommaso). Si mette in rilievo che la malizia del peccato sta nella negazione da parte dell’uomo della sua subordinazione a Dio, nel suo erigersi in un assoluto. Perché creatura non trova in se stesso la propria felicità e di conseguenza si riversa sulle altre creature, trasformandole in assoluti in cui lui stesso si perde e si aliena.

La virtù, (conversio ad Deum et aversio a creaturis), in quanto il contrario del peccato non si può definire con: “l’aversio ad creaturas!” La malizia non sta nelle creature bensì nelle cattive tendenze del cuore umano. L’atteggiamento cristiano di fronte al mondo non può essere d’avversione ma di amore. Non soltanto di un amore che può procedere dalla contemplazione della bellezza, per l’ordine di tutto il creato, ma l’amore deve essere molto più profondo di questo, l’amore cristiano del mondo è profondo e teologale che nasce dalla contemplazione soprannaturale del mondo dalla creazione. Bisogno amare il mondo da Dio e Dio come fonte d’amore.

L’amore cristiano del mondo si poggia su tre idee fondamentali:

I. Il primo è la contemplazione dell’opera creatrice di Dio alla luce della fede. “La fede cristiana ci porta a vedere il mondo come creazione del Signore, apprezzando tutto ciò che è giusto e bello, riconoscendo la dignità di ogni persona, fatta ad immagine di Dio”. Di conseguenza, il cristiano vede il mondo come effetto della Somma Bontà, e perciò lo guarda come Dio lo guarda- con amore. Il Cristiano ama il mondo perché Dio lo ha amato ed è l’amore divino a rendere buone le cose.

II. Il secondo pilastro dell’amore per il mondo è l’ottimismo cristiano, basato sulla virtù della speranza, che non ignora la presenza del male nel mondo, ma è consapevole del fatto che tale presenza non ha potuto distruggere la bontà originaria del mondo. “Il cristiano deve essere una creatura capace di discernere, che non nega mai la bontà delle creature di Dio, vedere il divino manifestato nel creato; “tutte le cose sono vostre, voi di Cristo, e Cristo di Dio”.

III. La contemplazione unitaria del disegno salvatore di Dio. “Dal momento in cui Dio ha manifestato il suo amore per il mondo, tramite l’incarnazione del Verbo, non ci sono più realtà esclusivamente profane”. Non c’è nulla estranea a Dio, non ci sono realtà buone, nobili e profani che non sono di Dio. Dio ha stabilito la sua dimora fra gli uomini, ha lavorato, sperimentato il lavoro. Per mezzo di lui Dio ricapitola tutte le cose. Il destino della creazione, la sua partecipazione nell’eterna gloria è il fine del mondo, c’è un unico fine- quello soprannaturale. Dio ha affidato ai cristiani a ristabilire la pace tra il creato e Dio, ripristinare la bontà originaria. L’amore al mondo appartiene ad ogni battezzato (non è solo per i laici)!

4. Dimensione secolare dell’esistenza cristiana

Il termine “secolare” viene da “secolarità”. È un termine nuovo, vuol dire le caratteristiche proprie di elementi appartenenti al mondo o al secolo. Si contrappone al termine “secolarizzazione” oppure “secolarismo” che designa il mondo allontanato da Dio. Tutta la cultura era nella mano d’autorità ecclesiastico. Si è cominciato a prendere coscienza che ci siano autorità diversa, e il governo indipendente dalla Chiesa inizia a formarsi. La secolarizzazione è anche il passaggio delle proprietà ecclesiastiche a quella del governo. Il secolarismo, invece, è l’affermare l’autonomia delle realtà create indipendentemente da Dio. La secolarità invece accetta la dipendenza da Dio. Sono posizioni opposte.

Nei studi teologici dell’inizio del XX secolo la secolarità venne interpretato come parte integrante dei fedeli laici. Dopo il CVII si cominciò a parlare della secolarità della Chiesa con un significato molto più ampio, che sarebbe del rapporto tra Chiesa, mondo e storia. Paolo VI 1972: “La Chiesa ha un’autentica dimensione secolare, inerente alla sua intima natura e missione la cui radice affonda nel mistero del Verbo incarnato e che realizzata in forme diverse per i suoi membri”. Si dice che tutta la Chiesa ha la dimensione secolare e che il modello di secolarità è Cristo. Se per secolarità si capisce l’intenzione di sanare le realtà colpite dal peccato, è Cristo colui che massimamente ha fatto la risanazione. Gesù quando fa i miracoli li fa alla grande, il vino che fece era ottimo.

La Chiesa è consapevole di questa sua missione: la salvezza delle anime e trasformazione del mondo, ma vissuto in forme diverse nei fedeli. Il religioso e il laico non lo vivono in modo uguale.

AA 4: “L’opera della redenzione ha come fine anche l’instaurazione del mondo naturale, permeare e perfezionare tutte le opere naturali”. Per la Chiesa le realtà temporali non sono un semplice fatto sociologico, ma è una realtà con significato teologico: l’ordinamento di queste realtà costituisce parte della missione della Chiesa. Si deve capire la responsabilità di tutti i fedeli di fronte alla realtà secolare. La Chiesa vive in un mondo al quale annunzia la vita divina. Ogni cristiano comunque sia la sua vocazione deve collaborare all’animazione cristiana del mondo. La partecipazione sarà diversa. Il sacerdote vive la sua secolarità con il suo agire da Cristo, nel suo portare la grazia al cuore del uomo, sta facilitando che il cristiano possa santificare il mondo con la sua azione.

Il laico ordina gli affari temporali sotto Dio. L’indole secolare è propria e peculiare dei laici (LG 31). La secolarità del laico non esaurisce la secolarità della Chiesa. È un modo particolare di partecipare a questa dimensione secolare della Chiesa. La santificazione del mondo è attribuita a tutti, ma i laici contribuiscono in modo speciale, come nel centro, come il lievito che agisce all’interno. La vita cristiana deve tener conto della dimensione secolare della Chiesa. La vita ecclesiastica non può essere vissuta ai margini della vita.


26/3/07

5. Insegnamenti del CV II sulla vita spirituale dei fedeli laici

Decreto Apostolicam Actuositatem 4 (sull’apostolato dei fedeli laici): si tracciano le coordinate per capire il rapporto fra apostolato, preghiera e vita. La coordinata verticale, collegamento con Dio, ciò che unisce con Dio, è la caratteristiche comune di tutti i cristiani; invece quella orizzontale è specifica d’ognuno. È la santificazione del mondo dall’interno. Se non ci fosse l’intreccio fra le due coordinate, allora si andrebbe incontro a due rischi:

  1. Pietismo disincarnato (secondo il quale il laico si potrebbe santificare soltanto nelle attività o momenti sacri, partecipazione attiva nella liturgia o preghiera personale);

  2. Attivismo ad oltranza (la santità laicale dipenderebbe soltanto dalle attività secolari come se bastassero per santificare).

Il decreto dice che i fedeli laici non possono separare tali coordinate nella vita spirituale, anzi le due coordinate vengono intrecciate in una sintesi profonda.

Il laico deve pratica le virtù teologali attraverso la vita quotidiana. Riguardante la fede, il laico deve essere capace di riconoscere Dio, di cercare in ogni avvenimento la sua volontà. Tale fede si nutre nella meditazione della Parola di Dio. Indica l’importanza di dedicare un tempo di preghiera in mezzo all’attività temporale. Sulla speranza dice che l’attesa dell’aldilà non indica sospeso o disinteresse delle realtà terrene, ma il contrario. A causa della speranza il cristiano si impegna per estendere il regno di Dio, per migliorare il mondo e condurre tutto il creato a Dio. La carità rende capaci i laici ad esprimere realmente nella loro vita lo spirito delle beatitudini. La carità sarebbe la forza per poter realizzare la sintesi fra la dimensione verticale e la coordinata orizzontale, la chiave di volta della vita spirituale di laici. Questa sintesi delle due coordinate viene nominata: “unità di vita”.

Parte III. Dinamismo della vita spirituale

La stessa parola “vita” indica attività, sviluppo, crescita. La vita spirituale ha la vocazione di raggiungere la sua pienezza. Questa tensione verso il suo progresso, unione con Dio è ciò che studia la teologia spirituale.

Capitolo 11: La vocazione personale del cristiano

(importante)

Il concetto di vocazione ha un denso contenuto teologico, perché manifesta l’incontro tra l’iniziativa divina e la risposta umana, tra eternità e tempo. La nozione di vocazione costituisce la chiave di lettura di tutta la vita spirituale cristiana, giacché la vita in Cristo, ogni vita cristiana ha un carattere vocazionale. Nelle lingue moderne derivate da latino, si è mantenuto il senso religioso originario nonostante la presenza più o meno forte del senso soggettivo della parola (la nozione laicista del termine vocazione sarebbe la tendenza naturale ad una carriera, vocazione). Originariamente il senso è religioso. Il termine “vocativo” traduce il greco kalein- chiamare, convocare qualcuno, ha anche il senso di invitare e di dare nome.

  1. La vocazione personale: elemento che definisce il cammino verso Dio

  2. Insegnamenti biblici sulla vocazione (spiegazioni un po’diverse a quelle della dispensa). Esame

  3. Elementi costitutivi del concetto vocazione (analisi teologica). Esame

  4. La vocazione realtà dinamica

  5. Unità e diversità della vocazione

1. La vocazione personale: elemento che definisce il cammino verso Dio

Essendo la creazione una chiamata all’esistenza temporale, la redenzione è anche chiamata alla partecipazione alla stessa vita intratrinitaria, in modo tale che l’uomo è un essere finalizzato a Dio. La vocazione divina dell’uomo dà origine al processo della vita spirituale, che ha il suo origine in questo mondo e raggiungerà sua pienezza nella santità ontologica. Per arrivarci ogni individuo deve corrispondere al disegno di Dio, a ciò che Egli ha previsto per ogni individuo, che sarà diverso per gli altri. Ognuno è un mondo a sé.

La vocazione personale costituisce l’elemento che definisce il cammino verso Dio e che traccia il profilo della vita spirituale di ogni individuo. Ciò che ci fa santi non è l’appartenenza ad una determinata forma della vita cristiana (sacerdozio, religiosità, vita secolare), ma la nostra corrispondenza al cammino tracciato da Dio, le virtù vissute nel compiere la propria vocazione.

2. Insegnamenti biblici sulla vocazione

(Esame)

La Bibbia mostra che la vocazione è collettiva ed è personale, sempre un’iniziativa amorevole di Dio che sceglie un popolo e all’interno di esso richiede alle singole persone certi servizi personali e certe missioni da compiere.

A. Dimensione collettiva della vocazione.

La storia del popolo d’Israele inizia con il rivolgersi di Dio ad Abramo per fargli conoscere la sua volontà. Gn 12,1-2: “Il Signore disse ad Abram: «Vàttene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò. [2]Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione.” La discendenza di Abramo è costituito in un popolo riservato per Dio, considerato come figlio prediletto Os 11,1: “Quando Israele era giovinetto, io l'ho amato e dall'Egitto ho chiamato mio figlio.” La liberazione dalla schiavitù d’Egitto è una chiamata che stabilisce un vincolo. Dio difende Israele e il popolo deve obbedire alla legge fidandosi delle promesse divine. La chiamata e l’elezione implica una missione: proclamare a tutti i popoli che c’è un unico Dio che si rivela al mondo.

Con l’incarnazione del Verbo, con l’attività messianica di Cristo, il popolo supera i confini geografici e razziali, da quel momento il regno di Dio sarà costituito da tutti coloro che accoglieranno la parola. Dio invita tutti gli uomini a trovare la propria salvezza in Cristo, una chiamata, vocazione universale alla salvezza e santità. Coloro che accoglieranno questa chiamata costituiscono la Chiesa di Dio (Cor 1,2) “La Chiesa di Dio sono coloro che sono santificati in Cristo Gesù, chiamati ad essere santi (kalein- vocazione)”. Tramite la vocazione collettiva d’Israele, e della Chiesa, in secondo luogo, Dio fa conoscere la sua volontà e interpella ogni uomo affinché i talenti ricevuti, metta al servizio della salvezza.

B. Dimensione personale.

Nell’AT sono presenti le scene in cui Dio si rivolge ad una persona e la chiama al servizio dell’alleanza (Es 3,4). Dio sceglie e chiama i profeti con la missione di ricordare a tutto il popolo gli impegni dell’Alleanza Ger 1,5-7; Is 6,1-9). Possiamo vedere alcuni tratti essenziali della chiamata.

Tre caratteristiche della chiamata:

  1. La vocazione è un atto di Dio che avendo scelto un uomo, si rivolge a Lui e gli fa conoscere la sua volontà.

  2. Ogni vocazione è una chiamata a compiere una determinata missione, un incarico preciso collegato al destino del popolo.

  3. L’iniziativa di Dio richiede una risposta dell’uomo, la sua libertà è interpellata ad essere strumento servitore di Dio. La libertà è interpellata a mostrare la propria libertà ad essere strumento servitore di Dio.

Anche nei vangeli troviamo scene di vocazione: vediamo Gesù che chiama i suoi discepoli con la stessa forza con cui Jahvè ha chiamato i profeti. Mt 4,20: “vide due fratelli: Simone e Andrea e disse loro: «Seguitemi, vi farò pescatori di uomini». [20]Ed essi subito, lasciate le reti, lo seguirono.” La vocazione neotestamentaria ha una caratteristica tutta sua: sempre è una chiamata in Cristo e tramite Cristo. Cristo è l’eletto di Dio, per antonomasia e tutti i cristiani siamo scelti in lui, in Cristo Ef 1,4: “In lui ci ha scelto prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità.” S. Paolo nelle sue lettere adopera il termine “i chiamati” Rm 1,6: “Chiamati da Gesù Cristo”. Questo significa che i destinatari erano consapevoli d’aver ricevuto una chiamata, d’essere oggetto di vocazione, soggetti con vocazioni.

Gli stessi testi di Paolo indicano l’oggetto della chiamata e le conseguenze: Rm 8,29 “poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all'immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli”. 1 Cor 1,9: “fedele è Dio, dal quale siete stati chiamati alla comunione del Figlio suo Gesù Cristo, Signore nostro!” Quindi la conseguenza è in 1 Ts 1,12: “Siamo chiamati a comportarci in maniera degna di Dio che ci chiama alla sua gloria”. La vocazione introduce la persona nell’ambito della santità di Dio, di colui che realizza la chiamata, e questa chiamata colloca in condizioni di poter condurre una vita santa. Due testi importanti:

Rm 8,28-30: “Tutto concorre per il bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati dal suo disegno. Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del figlio suo prediletto. Quelli che ha predestinati li ha anche giustificati; quelli che ha giustificati ha anche glorificati”.

Conosciuto, predestinati, chiamati, giustificati, glorificati. In questo testo si osserva che il piano di Dio rivelato nella chiamata in Cristo comprende cinque atti. Due atti sono nell’intenzione divina, nella mente di Dio (preconoscenza e predestinazione) e gli altri tre sono nell’esecuzione temporale (vocazione, giustificazione e glorificazione). “Chiamati” si trova nel centro del percorso che inizia e finisce in Dio.

1 Cor 7,17: “Ciascuno continua a vivere secondo la condizione che gli ha dato il Signore, così come Dio lo ha chiamato”.

È necessario integrare nella vocazione il proprio status nel mondo e discernere il compito che ognuno deve svolgere nel piano divino della salvezza. La vocazione si deve svolgere entro il piano di salvezza per ognuno.

3. Elementi costitutivi del concetto vocazione (analisi teologica).

Esame

4 elementi:

1) Elezione divina. La vocazione presuppone un disegno preciso divino nei confronti di ogni persona. Tale elezione è eterna, da sempre e per sempre. È gratuita, precede qualsiasi merito dell’uomo. Comporta una missione particolare, un compito da svolgere il cui contenuto sarà determinato nel dialogo con Dio e in base ai doni ricevuti e alla personale condizione e allo stato di vita. Poiché l’elezione appartiene all’ambito della preconoscenza divina, siamo davanti ad un mistero insondabile (Gv 15,16: “non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi”).

È importante rilevare che dobbiamo fuggire da due poli: da una visione della vita come destino cieco e dall’altra da una concezione della vita come puro caso. La fede ci fa scartare l’ultima visione. La storia è guidata dal Figlio di Dio. Gli avvenimenti non succedono per caso, ma bisogna aver attenzione di cadere nella prima concezione- come un destino cieco, dove tutto è predeterminato, senza spazio per la libertà. La predestinazione non elimina la libertà, non la sostituisce ma la crea e dà senso. Il misterioso rapporto fra libertà e predestinazione. È chiaro che non c’è bisogno di negare il disegno divino allo scopo di difendere la libertà dell’uomo, né vice versa.

2) La manifestazione dell’elezione. In senso stretto la chiamata o vocazione è la manifestazione dell’elezione divina nel tempo e nella storia. Nei patriarchi, profeti e apostoli Dio si rivolge direttamente all’individuo, ma normalmente Dio chiama tramite mediazione umana (Davide attraverso il profeta, Samuele attraverso Eli…).

3) L’ascolto o discernimento della vocazione. La chiamata di Dio deve prevenire alla persona completa in modo che essa possa rendersi conto del disegno che Dio ha nei suoi confronti. Ci sono alcuni segni che portano ad avere una certezza morale (non è una certezza assoluta o evidente). Questi segni possono essere intrinseci alla persona o estrinseci (provengono dall’estero). Se intrinseci sono ad esempio l’idoneità (essere maschile per la vocazione sacerdotale), oppure la rettitudine (essere mosso da un motivo soprannaturale). Invece tra i segni estrinseci possono essere l’orientamento spirituale, e l’accettazione della parte ecclesiastica, nel caso in cui una vocazione deve essere sigillata dall’autorità. Il disegno di Dio non dobbiamo cercarlo nella mente eterna di Dio, inaccessibile, bensì nella storia della propria esistenza, che si vive in continuo dialogo con Dio (preghiera).

28/3/07

4) La risposta umana alla vocazione: Bisogna sottolineare che Dio concede sempre sufficiente grazie (luce nell’intelletto e forza della volontà) affinché l’uomo possa discernere la chiamata, decidere la risposta e compiere la missione affidata. La risposta all’iniziativa divina non dovrebbe essere mai frutto della superficialità o di un capriccio mutevole; essa ha un carattere di totalità, deve avere una dimensione onnicomprensiva che comprende tutta la durata della vita (non soltanto nel senso temporale, ma abbraccia tutti gli ambiti- non c’è nessuna dimensione della vita che non le appartiene). Il senso di totalità è importante: la vocazione incide sul tutto il nostro essere e il nostro agire.

Non ci sono vocazioni a prova (prima benedettino, dopo francescano e alla fine sposato). Questo senso di totalità non significa che tutta la nostra esistenza sia predeterminata dalla nostra vocazione (destino cieco), perché allora la nostra volontà sarebbe solo una mera accettazione dalla volontà di Dio. Ogni azione deve essere vissuta e presa nella logica della vocazione unificando tutta l’esistenza personale. La totalità nella risposta significa un impegno personale di consegna a Dio del proprio futuro, cioè fedeltà e perseveranza fino alla morte.

4. La vocazione realtà dinamica

La vocazione non è mai un fenomeno puntuale, statico, delimitato nel tempo, limitato ad un momento della nostra esistenza. Esiste un momento iniziale, momento in cui la persona diventa consapevole del piano di Dio. È il momento della scoperta, ma la vocazione è una realtà dinamica, continuata, si protrae lungo tutta l’esistenza della persona. Questa realtà dinamica conferisce unità e riempie di senso tutti gli avvenimenti della propria vita. Tante volte alla luce della vocazione si capiscono eventi della vita anteriore.

Inoltre, la vocazione è progressiva. Nel momento della scoperta della vocazione, Dio non manifesta tutti i suoi tratti nei suoi particolari. Dio manifesta i tratti essenziali, una bozza, e poi quella vocazione si va concretizzando, mostrandosi poco a poco con il passare degli anni. Dio non dice tutto ciò che deve fare una persona. Ogni situazione va delineando la vita dell’uomo e va manifestando la vocazione dell’uomo. Newman affermava: “In realtà non siamo chiamati una sola volta bensì molte volte, per tutta la nostra vita Dio ci chiama, ci troviamo sempre in stato di chiamata”. La vocazione personale è una chiamata permanente, pertanto si concretizza attraverso innumerevoli chiamate divine che interpellano la coscienza e che sono impulsi per ogni momento della vita cristiano. La risposta alla vocazione non è un singolo atto personale che predetermina tutti gli altri, ma è un continuo esercizio di libertà. La risposta alla vocazione è un atto di amore a Dio. Pertanto perseverare nella vocazione è rimanere nella risposta d’amore e una fedeltà dinamica, un esercizio continuo della libertà per realizzare il progetto divino che soltanto conosceremo pienamente nell’eternità.

Il discernimento della vocazione non è un problema di matematica che va risolto nella logica dell’evidenza dei dati. Dio non si impone sull’uomo con la forza dell’evidenza perché lascia poco alla libertà dell’amore. Dio ha voluto prendersi rischio della nostra libertà. La nostra libera risposta al disegno di Dio implica necessariamente una certa incertezza, un certo rischio. Altrimenti quale merito avrebbe la fede, l’abbandono di tutto l’essere a Dio. Il rischio permette la fede nella libertà.

5. Unità e diversità nella vocazione cristiana

Ci sono tante vocazioni come uomini nel mondo. È anche vero che tutte queste vocazioni possano essere raggruppate secondo tratti e linee in comune. Sono forme diverse di vivere la vocazione cristiana. Il fondamento di tale diversità sta nella dimensione ecclesiale della vocazione cristiana. Nella Chiesa esiste unità ed esiste diversità. Unità, perché uno è lo Spirito che distribuisce i doni, e uno è il fine a cui tutto si ordina (lo sviluppo del corpo di Cristo, la crescita della Chiesa), ma c’è anche varietà esistenziali. Sulla base della diversità di carismi ricevuti, dei incarichi ricevuti, dalla diversità di compito che ad ognuno tocca a svolgere.

Questa diversità ha dato origine a un particolare senso derivato dal termine vocazione: la parola “vocazione” non indica più l’atto della chiamata, ma la realtà o il compito al quale uno può essere chiamato: chiamate le vocazioni specifiche o peculiari che comportano un modo specifico di portare avanti la missione unica della Chiesa. Loro sono delle modalità o determinazioni ulteriori della comune vocazione cristiana.

Queste determinazioni possiamo riassumere in tre:

    1. La prima viene data per il modo d’essere cristiano nella Chiesa. La configurazione della Chiesa situa il cristiano in una categoria ecclesiale. Sono i stati di vita laicali, ministeriale o religioso. Sono modalità diverse e complementari (Christefideles laici n. 55 “Nella chiesa comunione, i stati di vita sono così collegati da essere complementari l’uno all’altro, … sono modalità diverse e complementari”).

    2. La seconda determinazione è collegata alla dimensione istituzionale nel senso che Dio chiama a molti cristiani ad appartenere a istituzioni concrete: vocazione francescana, ecc.

    3. Un’altra determinazione viene data alla chiamata al sacramento del matrimonio o al celibato per il regno dei cieli. Quest’ultimo, carisma del celibato, può essere vissuto in diversi momenti o stili entro la comunità ecclesiale, non è monopolio del sacerdozio.

Queste vocazioni specifiche non sono vocazioni aggiunte o sovrapposte, sono determinazioni dell’unica vocazione cristiana.

Cap. 12 Vita Teologale

1. Le virtù teologali, atteggiamenti fondamentali dell’esistenza cristiana

  1. Le virtù teologali, atteggiamenti fondamentali dell’esistenza cristiana

  2. Il cammino della fede

  3. Lo sviluppo della speranza cristiana

  4. La crescita della carità, vincolo ed essenza della perfezione cristiana

  5. Le virtù teologali, atteggiamenti fondamentali dell’esistenza cristiana

A. Fondamento biblico

La Sacra Scrittura ci insegna che la risposta dell’uomo all’auto-comunicazione di Dio per Gesù avviene essenzialmente tramite gli atti degli atteggiamenti fondamentali della vita spirituale, gli atti della fede, speranza e della carità che costituiscono la principale espressione della nostra comunione con Dio.

1 Ts 1,2-3 “Ringraziamo sempre Dio per tutti voi, ricordandovi nelle nostre preghiere, continuamente [3]memori davanti a Dio e Padre nostro del vostro impegno nella fede, della vostra operosità nella carità e della vostra costante speranza nel Signore nostro Gesù Cristo.” Nella stessa lettera, parlando dell’equipaggiamento spirituale del cristiano, san Paolo menziona “Noi invece, che siamo del giorno, dobbiamo essere sobrii, rivestiti con la corazza della fede e della carità e avendo come elmo la speranza della salvezza.” (1 Ts 5,8).

All’inizio della lettera ai Colossesi, S. Paolo ricorre a questo trinomio per ringraziare Dio per la comunità: Col 1,3-5 “Noi rendiamo continuamente grazie a Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, nelle nostre preghiere per voi, [4]per le notizie ricevute della vostra fede in Cristo Gesù, e della carità che avete verso tutti i santi, [5]in vista della speranza che vi attende nei cieli. Di questa speranza voi avete già udito l'annunzio dalla parola di verità del vangelo”.

Per S. Paolo la vita cristiana viene configurata quale una esistenza teologale, consiste primordialmente nel possesso e nell’esercizio degli atti di queste tre virtù: le colonne portanti dell’edificio spirituale.

B. Insegnamenti patristici e della tradizione spirituale.

I Padri della Chiesa riprendono la prospettiva scritturistica e mettono in rilievo lo stretto rapporto reciproco fra le virtù teologali. Per Agostino fede, speranza e carità sono il nocciolo della religione. S. Leone Magno dice che fede e carità vanno insieme. Quando non si trovano insieme, mancano insieme. Non si può amare senza fede e non si può credere senza amore. Per S. Ambrogio le virtù teologali s’includono a vicenda.

C. Elaborazione teologica

È soltanto nella sintesi teologica medioevale dei secoli XII e XIII che le tre sono qualificati come virtù infuse e vengono chiamati virtù teologali. S. Tommaso le denomina teologali perché hanno Dio per oggetto in quanto attraverso esse le persone sono ordinate rettamente a Dio.

Per mezzo delle virtù teologali, la persona tende a Dio con l’intelletto e la volontà e queste sue potenze già toccano Dio; in un certo senso penetrano nella divinità stessa. Il lume della fede è veramente partecipazione della verità divina: la speranza fiduciosa è causata immediatamente dalla bontà divina; infine, la carità altro non è che una partecipazione del divino amore, lo SS.

Gli atti delle virtù teologali vanno ritenuti quali gli atti fondamentali della vita spirituale, proprio perché soltanto essi sono adatti a realizzare formalmente la nostra comunione con Dio: essi raggiungono Dio e ci uniscono immediatamente a lui. GP II: “Le virtù teologali sono come la trama dell’esistenza cristiana”.

2. Il cammino della fede

A. La fede in senso biblico

Nella Scrittura prevale l’uso del verbo credere che il sostantivo “fede”. Credere secondo la bibbia è sottomettere l’intera persona a Dio con umiltà e fiducia nei pensieri e nelle opere. La rivelazione biblica non è comunicare cose nascoste, un insieme di verità, ma un comunicarsi di Dio stesso. La risposta umana di Dio che si rivela è la fede. L’uomo si decida per Dio nella fede e accetta tutto ciò che Dio gli propone. E questa risposta è il nucleo della risposta credente secondo la Bibbia.

Credere” secondo l’AT. Si parla di esso quando la fede è messo in prova. Si vede in Abramo al quale Dio dice che avrà una discendenza numerosa come le stelle del cielo. Gn 15,6: “egli credete e Dio lo accreditò come giustizia”. Lui pone tutta la fiducia in Dio, più grande dell’uomo. Per questo Paolo dice per Abramo d’essere Padre dei credenti, disposto ad accogliere la proposta di Dio. Lo stesso atteggiamento di fede costituisce un’esigenza per il popolo di Dio, dopo il passo del mare roso nel Es 14,31 Israele vide la mano potente e il popolo credete in lui e nel suo servo Mosè. Il popolo d’Israele viene rimproverato per mancanza di fede. I profeti propongono d’avere fiducia totale in Dio. Il tempo di umiliazione, la deportazione in Babilonia è la punizione per l’incredulità e slealtà del popolo d’Israele. La radice ebraica di “credere” significa stare fermo, poggiare su qualcuno, sentirsi sicuro.

Credere” secondo il NT. Continua e sviluppa il concetto dell’AT. La fede è come condizione richiesta dal malato per la guarigione. A capo della sinagoga Gesù chiede d’avere fede quando riceve la notizia della morte della figlia Mc 5,36 “non temere, continua solo ad avere fede”. Ai discepoli Gesù esige che si sentono sicuri dinanzi a lui. Rimprovero davanti alla tempesta Mc 4,40: “non temere, io sono con voi”. Richiede di tenere possibile ciò che per gli uomini non è possibile. In Gv l’accento è sulla confessione di fede in Gesù come il Messia, figlio di Dio.

Gv 11,25-27: “Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; [26]chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. Credi tu questo?». [27]Gli rispose: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo».”

Gv 20,29: “Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!».

La fede è in rapporto di fiducia in Gesù Cristo. Il modello di fede è la Madonna. Alla luce dei insegnamenti biblici, credere significa non soltanto aderire alle verità rivelate ma anche abbandonarsi a Dio con umiltà e fiducia nel pensiero e nelle opere accettando il divino disegno di salvezza. La fede è il primo passo nella strada che finisce nella beatitudine eterna.

Trento insegna che la fede è l’inizio della umana salvezza, il fondamento e radice di ogni giustificazione. Dal punto di vista spirituale, mediante la fede l’anima intraprende il cammino verso la comunione con Dio.

Esame:

In sintesi: possiamo affermare che la fede nella Sacra Scrittura racchiude i seguenti aspetti:

  1. Aspetto intellettuale- ammettere come vero tutto ciò che Dio ha rivelato.

  2. Aspetto affettivo- fiducia e adesione totale al disegno divino.

  3. Aspetto effettivo- regolare la propria condotta secondo le esigenze della salvezza.

20/4/07

B. La crescita della fede

La fede in quanto relazione vitale con Dio è un azione dinamica che tende alla sua crescita. Il primo modo di crescere nelle fede è pregare. Lc 17,5-6: “l’apostolo disse al Signore: Aumenta la nostra fede”. Il padre del fanciullo indemoniato Mc 9,24: “Credo, aiutami nella mia incredulità”. Lo sviluppo della fede richiede il suo esercizio mediante l’azione vissuta. La fede deve essere esercitata dalla carità Gal 4,6 “E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre!”. Se non viene espressa nelle opere è morta Eb 11,17-18:

[17]Per fede Abramo, messo alla prova, offrì Isacco e proprio lui, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unico figlio, [18]del quale era stato detto: In Isacco avrai una discendenza che porterà il tuo nome.

La fede cresce quando è vissuta in mezzo alle prove e tribolazioni. Dio mette alla prova la fede dei fedeli per farli crescere in questa virtù. Lo sviluppo della fede deve portare ad una visione di fede operante in tutti gli atti dell’esistenza umana. Devono essere presenti i criteri di fede di giudicare le cose. La visione di fede porta a giudicare tutto: il prossimo, noi stessi, e gli eventi quotidiani alla luce della fede, in modo soprannaturale, con sguardo d’eternità. Si tratta della vita di fede, in cui le verità rivelate che si ritengono per fede diventano norma del nostro vivere, pensare, amare ed agire.

2. Lo sviluppo della speranza cristiana

A. Contenuti della speranza

La fede compie il primo passo verso Dio. In questa conoscenza nasce la volontà, la tendenza, la ricerca di questo sommo bene, del possesso di Dio. Questa tendenza costituisce l’essenza della speranza teologale. In questo senso speranza e fede sono inscindibilmente collegati. La speranza prolunga l’atto di fede con questo desiderio di possedere le realtà che crediamo. Costituisce l’oggetto proprio della vita eterna, della speranza. Causa nella persona il fermo convincimento di poter raggiungere i beni futuri, nella consapevolezza che non può contare sulle proprie forza, ma contare sull’aiuto divino che costituisce il motivo formale della virtù della speranza.

La necessità dell’aiuto divino scaturisce dalla trascendenza stessa della vita divina: non può essere raggiunto dallo sforzo umano, ma ci è concessa conformemente alla nostra cooperazione con la grazia. S. Paolo adopera 40 volte la parola “elpis” (speranza) su 53 volte apparsi nel NT. Ha 20 delle 32 volte che appare il verbo sperare. La speranza cristiana per Paolo è una fiducia abituale dell’uomo sulla fedeltà di Dio nelle sue promesse. Per l’apostolo Cristo è la nostra speranza 1 Tm 1,1: “Cristo risorto è la nostra speranza”.

B. Dinamismo della speranza

Essendo la speranza una virtù infusa e soprannaturale, solo Dio può essere causa della sua crescita, tuttavia il cristiano può approfondire in essa nella misura in cui conta di più sull’aiuto divino nel proprio combattimento spirituale. I cristiani devono essere attenti per allontanarsi da due poli nocivi: la presunzione e la disperazione. La presunzione “pelagianesimo” o volontarismo spirituale consiste nella sopravvalutazione pericolosa delle proprie capacità e dei mezzi naturali e di conseguenza nel contare solo sullo sforzo personale nella propria santificazione. Questo vizio è più frequente agli inizi della vita spirituale in quando si pensa l’ideale santità sia raggiungibile in poco tempo.

Ogni giorno però, la distanza si accentua: gli insuccessi, le mancanze quotidiane, fanno sentire più acutamente il contrasto fra l’ideale e la realtà. Allora si corre il rischio di cadere nel polo contrario: la disperazione che si potrebbe chiamare “luteranesimo o pessimismo spirituale”, in cui la persona ritiene che la propria santità è una utopia e quindi gli sembra inutile far ricorso all’aiuto divino.

Per evitare la presunzione bisogna considerare le parole di Gesù Gv 15,5 “senza di me non potette fare nulla”. Per eludere la disperazione si deve ricordare Fil 4,13: “Tutto posso in colui che mi dà la forza”. Ci vuole un equilibrio fra accettare i propri limiti e chiedere l’aiuto divino. Bisogna mettere in pratico un impegno per progredire nella vita spirituale. La speranza non risparmia la lotta, l’impegno nella vita spirituale. La speranza è la virtù del pellegrino, di colui che cammina verso una meta. È caratteristico del “homo viator” che si dirige verso la patria definitiva, la beatitudine eterna.

Nella vita spirituale la speranza porta a rialzarsi dopo le cadute nella certezza della consecuzione del perdono divino verso la penitenza e il sacramento della riconciliazione.

3. La crescita della carità, vincolo ed essenza della perfezione cristiana

Il primato della carità nella vita cristiana è una verità appartenente al patrimonio dottrinale della Chiesa che si ritrova nelle fonti della Rivelazione.

A. Insegnamenti biblici

Nella legge dell’AT troviamo due leggi che fanno riferimento alla carità. Il precetto dell’amore faceva parte dello “Shema Israele” Dt 6,4-5: “[4]Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. [5]Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze.” Abbiamo il precetto che caratterizza i rapporti all’interno del popolo d’Israele Lv 19,18 “[18]Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore”. Gesù abbina questi due passi dell’AT.

Mt 22,34-40: [34]Allora i farisei, udito che egli aveva chiuso la bocca ai sadducei, si riunirono insieme [35]e uno di loro, un dottore della legge, lo interrogò per metterlo alla prova: [36]«Maestro, qual è il più grande comandamento della legge?». [37]Gli rispose: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. [38]Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. [39]E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. [40]Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti».

Gesù sintetizza in unità organica il precetto dell’amore di Dio e del prossimo. Costituisce un unico comandamento nuovo: il primo da cui derivano tutti gli altri. L’iniziativa di Gesù porta in se tre fatti:

  1. L’associazione inseparabile dei due precetti

  2. La riduzione chiara di tutta la legge a questo precetto duplice e fondamentale.

  3. La nuova e universalistica spiegazione dell’amore del prossimo (rivolto anche ai nemici).

Il Signore ha fatto di questo precetto il fondamento della nuova legge, della legge d’amore. S. Paolo insegnerà che la legge serviva a introdurre l’uomo a queste esigenze dell’amore.

Rm 13,8-10: “[8]Non abbiate alcun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole; perché chi ama il suo simile ha adempiuto la legge. [9]Infatti il precetto: Non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non desiderare e qualsiasi altro comandamento, si riassume in queste parole: Amerai il prossimo tuo come te stesso. [10]L'amore non fa nessun male al prossimo: pieno compimento della legge è l'amore.”

L’amore non fa nessun danno al prossimo. Col 3,14 troviamo: “Al di sopra di tutto vi sia la carità, vincolo della perfezione”. Nei versetti precedenti S. Paolo parla della vita nuova di Cristo come una sorte di abito che si indossa, un vestito nuovo “Rivestitevi dunque, come amati di Dio, santi e diletti, di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza; [13]sopportandovi a vicenda e perdonandovi scambievolmente”. Nel vestito nuovo la carità è come vincolo, come il cinto che mette l’abito in ordine, mette in ordine tutte le altre virtù. Con questa immagine l’apostolo mette in risalto il primato della carità sulle altre virtù cristiane. Questo si vede nell’inno della carità 1Cor 13.

Nell’insegnamento di S. Giovanni la carità è al primo posto nella vita spirituale perché “Dio è amore” 1 Gv 4,16. Di conseguenza “chi non ama non ha conosciuto Dio” e “rimane nella morte”.

B. Insegnamenti patristici

I padri raccolgono e ripetono l’insegnamento biblico. S. Agostino – tutta la sua dottrina gira attorno alla carità. “Se hai la carità hai tutto, senza la carità nulla ti gioverà qualunque cosa tu abbia”. “Ama e fa ciò che voi. Sia che tu parla, parla per amore sia che tu correggi, correggi per amore: sia che tu perdoni, perdona per amore; sia in te la radice dell’amore, poiché da questa radice non può procedere se non il bene”. Non significa autonomia dell’amore o distacco dell’amore dalla regola della verità. Il primato gli viene dal potere di rendere la verità operante e dominatrice dei pensieri e degli affetti. “Il vero amore consiste nell’aderire alla verità nella giustizia”.

C. Insegnamenti magisteriale

Il magistero ha ripetuto con fedeltà gli insegnamenti biblici e patristici il primato della carità sul primato della carità nella vita spirituale. Il CVII ha definito la santità precisamente con la carità, nel suo insegnamento sulla vocazione alla santità nella Chiesa LG 42.

D. Dottrina teologica

Il rapporto essenziale tra santità e perfezione della carità è uno dei capisaldi della riflessione teologica nel campo della spiritualità. Per S. Tommaso, la perfezione della vita cristiana consiste essenzialmente nella perfezione della carità: S.Th II-II q. 182, a. 1, “Ogni cosa si dice perfetta in quanto raggiunge il proprio fine che è la sua ultima perfezione. Ora, è propria la carità a unirci a Dio, che è l’ultimo fine dell’anima umana. Perciò la perfezione della vita cristiana consiste specialmente nella carità”. Sulla domanda se qualsiasi atto della carità faccia crescere questa virtù risponde: “la carità non cresce in maniera attuale con qualsiasi atto, però qualsiasi atto di carità predispone all’aumento di essa in quanto l’uomo da un atto di carità viene reso più pronto ad agire e muoversi in quella linea. La ripetizione di atti crea l’abito. C’è questa tendenza di agire nuovamente in quel senso. La carità può crescere sconfinatamene? Lui distingue: da parte della carità, si può crescere in quanto è partecipazione alla carità infinita di Dio. La carità in se stessa non ha un termine di crescita. Da parte della causa della carità che è Dio, nemmeno qua c’è un limite. Ma la capacità della creatura è finita e non può crescere all’infinito ma rimane sempre l’atteggiamento ad una crescita maggiore. Man mano che cresce la carità nel soggetto cresce anche la sua capacità di amare.


L’esame ha due parti:

11 domandine da rispondere vero o falso. 11punti, uno a un punto.

II. 3 per 3 = 9

III. Argomenti = 20

In totale: 40 punti

    1. parte – qualche domandina.

    2. statuto scientifico- l’oggetto della teologia spirituale(§2.2), fonti e metodo (chiesti ed importanti)(§2.4)

    3. Santità- l’analisi teologica della santità ontologica (importante)(§3.3)

    4. Chiamata universale della santità (importante)(§3.5) e dottrina del CVII(§3.6).

    5. Inabitazione(§4) (domandine) & filiazione(§5)

    6. cristocentrismo della vita spirituale(§6.1)

    7. sequela Christi e imitazione di Cristo(§6.3 e 6.4)

    8. Vita secondo la carne e spirito (S. Paolo)(§7.3)

    9. docilità dello SS(§7.7) ed i carismi(§7.6)

    10. Dimensione ecclesiale (§ 8)

    11. Dimensione secolare della vita cristiana(§ 10) importante (amore per il mondo, i termini(§10.1); nozione di secolarità(§10.4))

    12. Vocazione individuale(§11), analisi teologica della nozione di vocazione(§11.3), come realtà dinamica(§11.4) e sulla vita teologale(§ 12)- domandine.

1 Pseudo Dionigi, De divinis nominibus 7,3

2 S. Agostino, Confessionum libri tredecim, 1,1 (NBA 1,5)

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